Avete presente quei momenti della vostra vita in cui le circostanze e l’incertezza vi portano a rifugiarvi nelle piccole e immutabili sicurezze? Quel maglione portafortuna, quella donna che risponderà esattamente alle vostre aspettative, quel film che vi darà la stessa sensazione che vorreste ricreare all’infinito. Ecco, l’Italia pare rinchiusa in questo ciclico riaffiorare dell’identico. Un rassicurante déjà-vu che da grottesco assume ormai tratti inquietanti.
Era il 1999, alle soglie del duemila, come si scriveva nei temi dei liceali, quando il festival di Sanremo fu affidato a Fazio. In quell’occasione scaturirono le accuse di una deriva buonista, sinistrorsa e girotondina dell’evento. Anna Oxa quell’anno vinse. Oggi, a più di un decennio di distanza, la cantante viene esclusa e accusa Fazio di una gestione politicizzata e conformista dell’evento, fin dalla selezione dei cantanti. Non è intenzione del sottoscritto sposare o meno il vittimismo di chi si sente escluso per una pseudo-epurazione ideologica. A dire il vero non viene da ergere la Oxa a paladina dell’anticonformismo, ma le si riconosce certamente una capacità di reinventarsi e di mettersi in gioco. Ciò stride con la scusa messa in campo da Fazio di avere agito nelle selezioni rispondendo a dei criteri che premierebbero “la contemporaneità”.
Ma se il presente e il contemporaneo prospettati dal rivoluzionario Fazio hanno come sottofondo la sua litania mediatica, ci si può solo augurare che l’arcaico ritorni e fagociti ogni possibile futuro melenso. O almeno che si compia per nemesi un’autocombustione dei protagonisti che assediano il nostro immaginario quotidiano da decenni, compreso lo stesso conduttore. E che in un’apocalissi mediatica, Maroni possa salire sul palco di Sanremo improvvisando una versione jazz dell’inno nazionale, Berlusconi si convinca a intonare “O bella ciao” in coppia con Santoro, con ai cori le olgettine e Giulia Innocenzi, unite in una ritrovata solidarietà femminile. Monti presenti un pezzo di musica techno più che un programma elettorale da tecnico, mentre Fazio preso da una passione improvvisa e incontrollabile si avvinghi al modo di Benigni alla Littizzetto. Che il tutto deflagri in un surreale circo ipermediatico, nell’attesa che, con un coup de théâtre, dal “non so dove”, si ripresenti sul palco Carmelo Bene, a introdurre l’esibizione di un altro compianto genio, John Cage, pronto a eseguire la sua “4:33”, una (non) canzone che provocatoriamente consisteva nel silenzio totale. Un silenzio come occasione per ascoltare se stessi e l’ambiente in cui viviamo, il mondo, l’altro. Un silenzio che è il tema da cui ripartire, fuggendo dal chiasso di una fissità rumorosa e svilente. Comunque andrà Sanremo sarà un successo, mentre a noi toccherà ancora attendere che giunga finalmente l’era dell’eccesso.