
Peccherebbe di immodestia, e anche di mancanza di senso storico, chi ambisse, dopo la notizia della scomparsa di Papa Francesco, a esprimere un giudizio su un pontificato che come pochi altri, almeno dall’ascesa al soglio di Pietro di Giovanni XXIII, ha suscitato sentimenti così contraddittori. Un po’ perché – occorre riconoscerlo onestamente – contraddittorie potevano apparire molte prese di posizione dell’uomo, anche per la sua consuetudine di interloquire senza filtri con la stampa, ma anche perché la prospettiva di questo pontefice venuto “dall’altra metà del mondo” poteva non coincidere necessariamente con quella di noi occidentali. Dal “chi sono io per giudicare” alla denuncia della “frociaggine” nei seminari, dagli auguri a Pannella all’accusa di essere dei “sicari” ai medici non obiettori il passo può sembrare lungo. E anche la coesistenza fra le posizioni in materia di immigrazione (una sorta di “teologia del gommone”, seguita a quella della Liberazione) e l’umana simpatia per una leader come Giorgia Meloni può suscitare perplessità in chi giudica l’operato di un pontefice secondo criteri laicamente politici.
Non bisogna del resto dimenticare che Jorge Mario Bergoglio, nato nel 1936, visse gli anni decisivi della sua infanzia e della sua adolescenza in concomitanza con la parabola politica di Juan Domingo Perón e, anche se sarebbe improprio attribuirgli l’etichetta di “papa giustizialista”, non è da escludere che certi tratti populisti della sua predicazione siano riconducibili a tale esperienza. Esagerava, certo, Jorge Fernández Diaz, quando sulle colonne dell’autorevole quotidiano liberal-conservatore di Buenos Aires “La Nación”, scriveva nel 2018 che il sogno di Bergoglio “non è di essere Papa, ma di essere Perón”. E andava certo sopra le righe Aldo Duzdevich quando scrisse che se Perón fosse ancora vivo papa Bergoglio direbbe che è lui a essere “franceschista”. Ma non è improprio scorgere un certo piglio giustizialista nel suo approccio ai problemi e nel suo stile di governo.
Ammesso e non concesso che Diaz e Duzdevich avessero ragione, l’enigma Francesco non sarebbe comunque sciolto, anzi forse sarebbe accresciuto, perché la storia argentina c’insegna che nel peronismo c’è tutto, dall’estrema destra all’estrema sinistra, dalle simpatie per l’Italia mussoliniana ai montoneros, per cui l’interrogativo sarebbe semmai riproposto in altre forme. Di peronista c’è semmai in Bergoglio il senso del potere, il frequente ricorso ai motu proprio, un rigore che a volte è apparso spietato nei confronti della dissidenza tradizionalista all’interno della Chiesa, abbinato stranamente però a tentativi di dialogo e persino d’intesa con gli “scismatici” lefebvriani. Per tacere la pessima gestione del “caso Becciu”, vittima della malagiustizia nei palazzi vaticani.
Per comprendere a fondo un uomo, però, a volte è più importante riflettere non tanto sul suo luogo di origine, quanto sugli ultimi atti della sua vita terrena. E qui la parabola umana di papa Francesco ci rivela, in prossimità della morte, un comportamento e una scelta che ci dovrebbero far pensare. Il comportamento è quello di un uomo che sino all’ultimo non ha abdicato alla sua missione, che violando le consegne dei medici non ha rinunciato al dialogo con i fedeli, a costo di accelerare la propria fine: una lezione di coraggio che difficilmente potrà essere dimenticata. Il gesto risale a pochi giorni prima della sua scomparsa, e meriterebbe un’attenzione superiore a quella che buona parte dei vaticanisti gli ha dedicato. Il 10 aprile scorso, in quella che nelle speranze dei fedeli avrebbe dovuto essere la sua convalescenza, il pontefice si è recato a pregare davanti alla tomba di San Pio X: il pontefice morto di dolore per lo scoppio della grande guerra, ma anche il Papa della crociata antimodernista, cui si rifanno proprio i movimenti tradizionalisti che criticano da tempo il pontificato bergogliano.
Non so che cosa il più tradizionalista e il più, almeno all’apparenza, rivoluzionario dei pontefici degli ultimi centocinquant’anni si siano detti. Peccando d’immodestia, dinanzi all’assurdità di un conflitto locale che rischia di trasformarsi nella terza guerra mondiale, oso immaginare che abbiano entrambi meditato sulle parole pronunciate il 24 agosto 1939 da un grande pontefice che purtroppo non è stato ancora beatificato: “Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”.