
A tre settimane dall’uscita del suo nuovo libro Uccidere un fascista (Mondadori), che racconta la storia e l’omicidio di Sergio Ramelli, lo scrittore Giuseppe Culicchia ha concesso a Barbadillo una lunga intervista “senza rete”, nella quale affronta argomenti che per molti anni sono stati tabù nella cultura ufficiale. La prima presentazione ufficiale del libro di Culicchia è in programma venerdì 23 marzo, alle 18, alla libreria Luxemburg di Torino.Nei giorni scorsi il suo libro è entrato nella classifica dei più venduti pubblicata dall’inserto La Lettura del Corriere della Sera: se l’aspettava?
“No, non me l’aspettavo e non si tratta di una cosa banale. Il nome di Sergio Ramelli salta fuori ogni anno solo per condannare il “Presente!” con cui viene ricordato. Spero che tra coloro che stanno leggendo il libro ci sia anche chi magari in realtà non conosceva bene la storia di Sergio o non la conosceva del tutto, perché si tratta come sappiamo della storia di un ragazzo di diciotto anni perseguitato e ucciso per il solo fatto di avere espresso le sue idee in un tema in classe. Le modalità stesse dell’omicidio ebbero un che di simbolico: quelle chiavi inglesi servivano a estirpare, letteralmente, le sue idee. Per questo gli venne aperto il cranio in quel modo. Nel sangue e nei frammenti di materia cerebrale che finirono sull’asfalto di via Paladini c’era ciò che Sergio Ramelli pensava e che secondo i suoi aggressori non aveva il diritto di pensare. In molti mi hanno detto in questi giorni che è stata una scelta coraggiosa. Per quanto mi riguarda si è trattato di una scelta necessaria. Era, è necessario raccontare la storia di Sergio Ramelli perché l’odio che sta all’origine della sua uccisione si è sedimentato nel corso del Novecento e anche se il Novecento appartiene ormai ai libri di Storia quell’odio non è scomparso. Ancora oggi c’è chi parla di “differenza antropologica”. Ancora oggi c’è chi pensa che sì, Sergio Ramelli non andava certo ammazzato, però… Ecco: quel “però” è osceno, non dovrebbe esistere, e invece lo si sente ripetere, quando non lo si avverte come una sorta di retropensiero”.
Ha detto di essersi imbattuto nella storia di Sergio Ramelli mentre scriveva il libro su Walter Alasia, suo cugino brigatista ucciso l’anno successivo, nel 1976. Com’è accaduto questo incontro?
“Walter Alasia venne ucciso dopo aver ucciso a sua volta un anno dopo, nel 1976. Se a un certo punto della mia vita ho cominciato a scrivere, ormai molto tempo fa, è stato perché volevo mantenere una promessa che avevo fatto a Walter e a me stesso il giorno della sua morte, quando tornando a casa da scuola trovai la mia famiglia in lacrime davanti alla tv e quel ragazzo a me tanto caro veniva definito un mostro. Avevo 11 anni: con Walter, che ne aveva nove in più, avevo trascorso le estati più belle della mia infanzia e la mia infanzia è finita con la morte di Walter. Per tutta la vita ho cercato di trovare le parole per raccontare chi era Walter prima di quel giorno maledetto in cui uccise due funzionari di polizia, Sergio Bazzega e Vittorio Padovani, facendo due vedove e degli orfani, per poi venire ucciso a sua volta. Perché io avevo conosciuto Walter come un ragazzo affettuoso, paziente, generoso: il fratello maggiore che non avevo e che mi aveva insegnato ad andare in bicicletta senza mani, a giocare a pallacanestro, a imitare le voci. Se ho cominciato a scrivere è stato per cercare di restituire a quel ragazzo la sua umanità e per tentare di comprendere i motivi che lo avevano portato una scelta dagli esiti tanto tragici e ingiustificabili. E ricostruendo quel periodo storico, ho incontrato Sergio Ramelli: nato lo stesso anno a pochi mesi e chilometri di distanza da Walter Alasia e che con questi aveva diverse cose in comune, compresa la passione politica. Ma con la differenza fondamentale che mentre Walter a un certo punto aveva deciso di impugnare un’arma, Sergio non aveva impugnato che la penna con cui aveva scritto quel tema: tema per cui, avendo condannato l’indifferenza dei partiti e dei giornali democratici nei confronti del primo duplice omicidio delle Brigate Rosse, che a Padova avevano ucciso due militanti missini, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, era stato additato come fascista dal collettivo della sua scuola, cosa che aveva dato origine alla sua persecuzione poi sfociata nella sua morte. Ma c’è di più: perché otto anni dopo la morte di Walter, fu sua madre Ada a morire di crepacuore per la perdita di quel figlio tanto amato; e quattro anni dopo la morte di Sergio, fu suo padre Mario a morire di crepacuore per lo stesso motivo. Scoprire questa cosa è stato per me decisivo, perché conosco quel dolore e perché credo che se è vero come si dice che i morti non sono tutti uguali penso che uguale sia il dolore di chi li ha amati, atroce specie per i loro genitori”. Lei è uno scrittore affermato e di successo, ma da alcuni anni ha cominciato a scrivere libri un po’ anomali per i canoni del mondo editoriale italiano, di solito molto conformista e molto di sinistra. Ha incontrato difficoltà?
“Ho la fortuna di poterli proporre a una casa editrice, la Mondadori, che non ha sollevato nessuna obiezione né quando ho detto che avrei voluto scrivere la storia di Walter Alasia né quando ho proposto quella di Sergio Ramelli. E sarò sempre grato al mio editore per avere accolto questi libri, per me importantissimi. Di nuovo, non era scontato”.
Nei giorni scorsi ha denunciato sui social di aver visto il suo libro capovolto in una Feltrinelli di Milano, con un chiaro richiamo alla “macelleria messicana” di piazzale Loreto. Al netto di un gesto sciocco e vigliacco, che tipo di accoglienza sta ricevendo il suo libro? Non solo dai lettori, ma anche dai librai e dagli operatori culturali.
“Il libro è uscito il 4 marzo, la prima presentazione è in programma venerdì 28 a Torino e sarà appunto la prima volta che mi troverò di fronte a un pubblico e naturalmente sarà interessante vedere le reazioni “live”. Per ora, gli inviti che ho ricevuto per presentarlo nel resto d’Italia sono arrivati per la maggior parte da chi la storia di Sergio la conosce molto bene, e se da un lato la cosa mi fa piacere – significa che chi la conosce ha apprezzato l’onestà di ciò che ho scritto – dall’altro spero che con il passare delle settimane altri inviti possano arrivare anche da altre parti, perché la storia di Sergio Ramelli è una storia che non solo ai miei occhi riguarda tutti noi: ha a che vedere, tra le altre cose, con il famoso articolo 21 della Costituzione “più bella del mondo”, come sentiamo ripetere spesso, ma che non tutti devono avere letto. A cominciare da chi mette il libro a rovescio evocando piazzale Loreto, o da chi mi scrive che avrei dovuto semmai raccontare la storia di Valerio Verbano. Certo che va raccontata, come ho raccontato quella di Walter Alasia e come andrebbero raccontate quelle di Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, e di tutti coloro che per un motivo o per l’altro sono stati uccisi in quegli anni. Ma che senso ha venirmi a scrivere che anziché la storia di Sergio Ramelli dovevo raccontare quella di Valerio Verbano? Solo uno: ovvero che la storia di Sergio Ramelli non la si deve raccontare, va rimossa, dimenticata, perché è la storia di un fascista e quindi non ha diritto di cittadinanza. Siamo nel 2025, non nel 1975: ma questo è. Ciascuno dovrebbe rispondere alla propria coscienza, ma non tutti ne hanno una”.
Tra pochi giorni ricorreranno 50 anni dalla morte di Ramelli e fra un anno da quella di suo cugino Walter Alasia. Pur trattandosi di due eventi molto diversi fra loro, potrebbero diventare un simbolo di riconciliazione nazionale?
“Sarebbe bello se un giorno questa riconciliazione nazionale avvenisse, e sarei felice se questi due libri potessero contribuirvi anche solo in minima parte. Io ho avuto un cugino nelle Brigate Rosse e un nonno che in camicia nera ha fatto la Marcia su Roma: per quanto mi riguarda la necessità di una riconciliazione nazionale è un dato di fatto. Ma i semi dell’odio sedimentatosi nel corso del Novecento sono arrivati in profondità. Non sarà facile: in ogni caso tocca provarci”.
A destra qualcuno non ha apprezzato l’accostamento che nel libro viene fatto tra Walter e Sergio: uno ucciso perché terrorista, dopo aver a sua volta ammazzato due poliziotti; l’altro massacrato a sprangate da dieci di Avanguardia Operaia. Può spiegare meglio?
“Non si tratta evidentemente di due storie sovrapponibili, e comprendo perfettamente le perplessità che il semplice fatto di accostare l’una all’altra può avere generato, e anche il disagio. Walter e Sergio avevano in comune diverse cose: nati come detto a pochi mesi e chilometri di distanza, entrambi figli di famiglie “normali”, una operaia, l’altra piccolo borghese, erano entrambi iscritti a un istituti tecnico ed entrambi coltivavano passioni comuni – la musica, l’Inter, l’ammirazione per gli indiani d’America – e l’interesse per la politica. Ma proprio in fatto di politica queste due vite fino a un certo punto parallele presero strade opposte: non mi riferisco qui solo al fatto di aver scelto uno la sinistra e l’altro la destra, ma anche naturalmente alla radicale differenza iniziale – Walter si iscrisse a Lotta Continua, che era un movimento extraparlamentare, Sergio al Fronte della Gioventù, che invece era l’organizzazione giovanile di un partito che sedeva in Parlamento – che si accentò ulteriormente nel momento in cui Walter lasciò Lotta Continua per entrare nelle Brigate Rosse, scegliendo dunque la violenza politica e mettendo consapevolmente in conto di poter uccidere e di poter essere ucciso. Sergio no: chi lo ha conosciuto lo ricorda come un ragazzo mite, e non c’è traccia di violenza da parte sua, anche se ancora oggi c’è chi cerca di giustificare la sua uccisione senza vergognarsi di farlo sostenendo che era un “picchiatore fascista”. Come dicevo però c’è un altro elemento ad accomunare i due: la morte di crepacuore della madre dell’uno e del padre dell’altro. E come avevo fatto per Walter ho cercato di restituire anche a Sergio la sua giovinezza, la sua umanità, il fatto che fosse un ragazzo di diciotto anni che in tutti i modi aveva tra l’altro cercato di proteggere la sua famiglia tacendo o minimizzando la persecuzione di cui era diventato oggetto. C’era infine anche l’esigenza di dare – come dire? – diritto di cittadinanza al dolore della famiglia Ramelli, che per tutto il periodo straziante in cui Sergio versò in coma in ospedale e perfino dopo la sua morte continuò a ricevere innumerevoli telefonate di minaccia e di scherno in cui si inneggiava a quanto era accaduto. Perché appunto uccidere un fascista non era reato. Perché Sergio, in quanto fascista, se l’era cercata: cosa che pensano ancora oggi in molti, anche se magari non lo dicono più”.
Il terzo libro che compone la sua “trilogia degli anni di piombo” è quello sulla mamma di Walter Alasia, sua zia materna, morta pochi anni dopo di crepacuore, come si dice in questi casi. In Uccidere un fascista, invece, si racconta del ruolo importante della mamma di Sergio Ramelli, una donna forte che ha sempre chiesto giustizia ma non vendetta. Sono due omaggi ai tanti genitori italiani che hanno sofferto in quell’epoca di violenza politica?
“Ada Tibaldi in Alasia e Anita Pozzoli in Ramelli hanno visto morire un figlio letteralmente sotto casa, lì dove fino a pochi anni prima quello che era stato un bambino aveva giocato a pallone, dove lo avevano tenuto per mano accompagnandolo a scuola, dove lo avevano visto crescere immaginando di vederlo diventare uomo. Non esiste dolore più grande. E i genitori che hanno perso un figlio o una figlia in quegli anni in Italia sono centinaia e centinaia. Figli che potevano avere fatto scelte simili a quelle di Walter e di Sergio; figli che avevano scelto di portare una divisa; figli che facevano un mestiere “a rischio”, tipo il magistrato, o che semplicemente erano usciti di casa una mattina per andare a una manifestazione e non erano più tornati. L’Italia è piena di queste storie terribili, bisognerebbe raccontarle tutte, di tutte avere memoria”. A parte l’assurdità e la vigliaccheria dell’omicidio Ramelli, ciò che colpisce è l’indifferenza, quando non l’aperta ostilità di buona parte del mondo politico, intellettuale e giornalistico italiano nei confronti di questo ragazzo di diciott’anni. Il consiglio comunale di Milano che applaude alla notizia della sua morte. Quanto è stato difficile scrivere quelle pagine?
“L’indifferenza è la punta dell’iceberg. E per questo era necessario scrivere la storia di Sergio. Senza omettere che quando si tratta di ricordarlo istituzionalmente, ancora oggi c’è chi lo fa togliendosi la fascia di sindaco, come Sala. E constatando che a distanza di cinquant’anni il semplice fatto di apporre nella sua scuola una targa con la scritta “ucciso per le sue idee” è motivo di polemiche e di proteste, vedi l’accoglienza riservata pochi giorni fa al ministro Valditara e alla sottosegretaria Frassinetti. A Milano una scuola è stata intitolata a Claudio Varalli senza scandalo alcuno. Una scuola intitolata a Sergio Ramelli invece non c’è. Perché, come recita il sottotitolo del libro scritto da Guido Girando, che desidero ringraziare perché ricostruire questa vicenda senza il lavoro di preservazione della memoria fatta da lui e da chi con lui in tutti questi anni ha curato il sito dedicato a Sergio sarebbe stato molto più difficile, quella di Sergio è “una storia che fa ancora paura””.
Sul caso Ramelli erano già stati scritti parecchi libri da parte di autori di destra, ma in sostanza la sua storia non era mai uscita dai circuiti dell’editoria militante. Lei crede che Uccidere un fascista avrà il ruolo che ebbe più di vent’anni fa Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, cioè di sdoganare una completa rilettura della recente storia politica della repubblica italiana?
“Sarebbe, nel caso, un risultato importante. Ma ciò a cui tengo di più è che questo libro possa arrivare nelle scuole, perché è in una scuola che cinquant’anni fa tutto ebbe inizio. E perché a nessun ragazzo deve mai più toccare ciò che è toccato a Sergio”.
Ramelli è stato una vittima totalmente innocente, vittima del cieco odio comunista.Gli altri casi sono diversi.
Non capisco invece perché sarebbe normale intitolare una scuola a Varalli, che partecipava a una manifestazione violenta. Spiace che sia stato ammazzato, ma non per questo era autorizzato ad andare in giro a menare le mani verso chi non la pensava come lui, oltretutto ragazzo di un’età che si caratterizza per arroganza e baldanza ma non certo per maturità e comprensione della vita. A quando una vera ricostruzione critica su quegli anni troppo spesso mitizzati a vanvera? E a quando quindi una autocritica da parte dei protagonisti di quegli anni?
Abbiamo scuole e vie intitolate al peggior sinistrume assassino, da decenni…
Varalli se la è andata a cercare… e l’ha trovata!