In un’industria cinematografica come quella americana, dominata da studios, majors, capitalisti e capitali nazionali e multinazionali, Roger Corman (1926-2024) ha rappresentato la figura, ormai quasi estinta, del cineasta indipendente. Tanto nelle vesti di produttore (prima perconto della American International Pictures, poi in proprio con la New World Pictures) che in quelle di regista, Corman ha infatti ideato un cinema che, a partire dagli anni 50 del 900, per alcuni lustri ha saputo riproporre, innovare e, in qualche caso, anticipare, quei generi che Hollywood aveva accantonato o non ancora scoperto.
La serie che meglio rispecchia la sua filosofia come produttore e regista di cinema a basso costo (che i pigri cultori della critica “alfabetica” definiscono di serie B) è quella tratta dai racconti di Edgar Allan Poe. Diretti e prodotti dallo stesso Corman, interpretati da un carismatico Vincent Price, che solo in un’occasione cede il posto al divo decaduto Ray Milland, vivacizzati dalla presenza di vecchie (Boris Karloff, Peter Lorre, Basil Rathbone, Debra Paget e Hazel Court) e nuove glorie (Jack Nicholson e Barbara Steele), girati spesso contemporaneamente o riutilizzando spezzoni e sequenze , gli otto film ispirati a Poe (I vivi e i morti, 1960, Il pozzo e il pendolo, 1961, Sepolto vivo, 1962, I racconti del terrore, 1962, I maghi del terrore, 1963, La città dei mostri, 1963, La maschera della morte rossa, 1964, La tomba di Ligeia, 1964), contribuiscono, sulla scia d’una analoga operazione condotta dalla casa di produzione inglese Hammer Film, a rifondare i generi horror e fantasy.
Produttore delle opere prime o seconde di registi poi assurti a grande notorietà come Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Peter Bogdanovich, Johnathan Demme, Ron Howars, Joe Dante e James Cameron, Corman, oltre che nella succitata serie, lascia il segno come regista anche nei generi gangsteristico (La legge del mitra, 1958, primo film da protagonista del futuro divo Charles Bronson, Il massacro del giorno di San Valentino, 1967, e Il clan dei Barker, 1970) e ribellistico-giovanilistico (I selvaggi, 1966, che se da un lato si rifà al vecchio Il selvaggio, dall’altro anticipa Easy Rider, di cui condivide il protagonista Peter Fonda, interprete anche del successivo Il serpente di fuoco, 1967, titolo precursore di un fiorente filone incentrato sugli effetti delle droghe chimiche).
Un discorso a parte meritano le sue regìe terminali. Il barone rosso (1971), più calzante in questo caso il titolo originale Von Richthofen and Brown, rievoca le battaglie aeree che, durante la Grande Guerra, contrappongono il tenente (e nobiluomo) teutonico Manfred Von Richthofen al parigrado canadese Roy Brown. L’epilogo del film contiene un cavalleresco e non scontato onore delle armi allo sfortunato aviatore e alla sua patria destinata alla sconfitta. Frankenstein oltre le frontiere del tempo (1990), la sua ultima regìa, interpretata dai compianti John Hurt e Raúl Juliá (le location del film sono italiane), è una variazione sul tema del mito prometeico del Frankenstein di Mary Shelley che conclude idealmente il lungo viaggio del prolifico produttore e regista attraverso i generi horror e fantasy. Attivo fino agli anni 10 di questo secolo, Roger Corman ha raccontato la sua filosofia nell’autobiografico Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai perdere un dollaro (Lindau, 1998).
Bell’articolo.