È uscito da poco in libreria e sta già scalando le classifiche di vendita. Anzi, su Amazon, nelle sezioni “geografia” e “scienze della terra”, è al primo posto. Viaggiatori straordinari di Marco Valle (edizioni Neri Pozza) ha tutte le carte in regola per diventare un piccolo fenomeno editoriale: perché le gesta di viaggiatori ed esploratori italiani – personaggi lontani nel tempo, in altri casi quasi sconosciuti – interessano così tanto al pubblico? L’abbiamo chiesto all’autore, che oltre ad essere un amico storico di Barbadillo, ha al suo attivo molte altre pubblicazioni di carattere storico e geopolitico.
Un tempo si diceva che il nostro era un popolo di santi, poeti e navigatori. Ma anche di esploratori, a quanto si evince dal tuo ultimo libro. Perché dei nostri viaggiatori che fra XIX e XX secolo hanno girato il mondo si sa molto poco?
«Perché siamo un popolo di smemorati cronici che per una stramba forma di ritrosia mista a tanto provincialismo, ha preferito rannicchiarsi nella narrazione editoriale e cinematografica angloamericana, dimenticando così l’importante contributo offerto dalla “comunità avventurosa” italica e poi italiana che si è inoltrata nelle zone più sconosciute e misteriose del globo. Un peccato, oltre che un errore di prospettiva poiché ritroviamo storie e vite eccezionali quanto sorprendenti: da Ippolito Desideri in Tibet a Giacomo Beltrami alle sorgenti del Mississippi; da Giovanni Belzoni, “padre” dell’egittologia moderna, a Orazio Antinori e Carlo Piaggia in Africa, da Luigi Amedeo di Savoia fino a Odoardo Beccari nel Borneo, Giacomo Bove in Patagonia, Pietro Savorgnan di Brazzà in Congo, Guglielmo Massaja e Vittorio Bottego in Abissinia, Giovanni Miami sul Nilo, Giovan Battista Cerruti in Malesia. E ancora nel Novecento Alberto de Agostini in Patagonia, Raimondo Franchetti in Dancalia, Giuseppe Tucci in Asia e Ardito Desio nel Sahara e sull’Himalaya e +altri ancora. Una galleria di personaggi estremi, molto inquieti (e talvolta un po’ matti) che percorsero dal Settecento in avanti le zone più sconosciute e inesplorate dei cinque continenti per spingersi, in anni meno lontani, sino ai due Poli del globo».
I grandi esploratori ottocenteschi, soprattutto britannici e francesi, avevano alle spalle potenti Stati coloniali oppure facoltose società commerciali. Gli italiani che sono andati alla scoperta dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica come hanno fatto?
«È una storia scritta da scienziati visionari, da coraggiosi missionari, da pionieri scalcagnati, da soldati allergici alle caserme, da squattrinati esuli che inizia e si sviluppa già prima dell’Unità. Con l’eccezione di Antinori e Bottego e delle crociere oceaniche delle “navi da scienza”, troviamo viaggiatori “fai da te” che con tanto coraggio e pochissimi mezzi, s’inoltrarono verso l’impossibile. Verso l’ignoto. L’Italia liberale, nonostante le insistenze della Società Geografica Italiana e le ambizioni della Regia Marina e del nascente partito “africanista”, era un paese ancora rurale, povero e diretto da un ceto politico irrimediabilmente terragno, del tutto impreparato per proiezioni oltremare. In più la nostra diplomazia fu sempre molto attenta a non turbare gli interessi delle potenze maggiori e solo dopo aver ottenuto l’assenso della Gran Bretagna iniziammo ad interessarci dell’Africa orientale.
Soltanto a partire dagli anni Venti del Novecento, in una rinnovata visione di Roma “imperiale” come nuovo ponte tra Europa e Oriente, presero forma una serie d’iniziative importanti: nel 1928 il comitato permanente per il coordinamento delle missioni archeologiche, il rilancio dell’Istituto orientale di Napoli, la fondazione, grazie al sostegno determinante di Giovanni Gentile, dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, l’Ismeo. Quest’ultima fu l’iniziativa scientifica più ambiziosa e politicamente più ardita del Ventennio. In realtà l’Istituto divenne l’efficace strumento operativo di Giuseppe Tucci, il massimo studioso europeo delle tradizioni culturali e spirituali dell’Oriente nel XX secolo. Un vero genio ma anche un abilissimo manipolatore capace di trasformarsi, a seconda delle circostanze, in una salamandra politica. Prima grazie ai finanziamenti del regime poi ai denari della repubblica italiana, il professore di Macerata sviluppò negli anni il suo sbalorditivo quanto inaudito sogno di conoscenza — intrecciandolo con originali ipotesi geopolitiche — attraverso un’infaticabile attività di ricerca in India, Tibet, Nepal, Giappone, Afghanistan, Pakistan, Iran. Non fu l’unico. Nella prima metà del Novecento troviamo altri cuori avventurosi, da Ardito Desio, ferreo organizzatore di spedizioni in luoghi remoti e terribilmente impervi, una epopea sigillata dalla conquista del mitico K2; al coraggioso quanto dimenticato Raimondo Franchetti, l’esploratore dell’arida Dancalia».
In che cosa consisteva l’approccio italiano alla scoperta di nuove terre e popoli sconosciuti? Così come è esistita una via italiana al colonialismo, è stato lo stesso anche per le esplorazioni?
«Ritroviamo in tutti i protagonisti (compreso nell’oggi assai maltrattato Vittorio Bottego) una costante: una visione verso “l’altro” differente e contrastante rispetto a quelle, ben più rapaci, dei loro colleghi inglesi o francesi. Senza indulgere nell’autoconsolatorio refrain di “italiani brava gente”, troviamo puntuale in ognuno il disgusto profondo verso la piaga dello schiavismo e la diffidenza se non il pieno rifiuto verso ogni forma di colonialismo predatorio (quello belga in Congo in primis). Va altresì sottolineato, che non pochi — da Beltrami a Piaggia, da Raimondi a Cerrutti, da De Albertis a Beccari sino all’inarrivabile Giuseppe Tucci — abbandonarono l’iniziale sguardo illuminista, positivista ed eurocentrico per vivere appieno le realtà dei luoghi acquisendo una nuova e diversa coscienza del mondo e delle sue genti. Un dato assolutamente non scontato».
Nella lunga galleria di personaggi eccezionali che compaiono nel libro, quali sono i tuoi preferiti?
«La scelta è ardua. Sicuramente mi ha colpito l’epopea di Pietro Savorgnan di Brazzà nel Congo. Questo friulano coraggioso e idealista (nella foto sotto) sottrasse, donandolo alla Francia, parte dell’enorme regione alla rapacità di Leopoldo del Belgio in nome di un “colonialismo di civiltà”; un sogno romantico che Parigi però non apprezzò. Il suo zelo contro gli schiavisti, la sua capacità di pacificare senza violenza le popolazioni locali, l’opposizione ad ogni forma di sfruttamento dei nativi infastidirono ministri e capitalisti gallici. Richiamato in Francia lo attese una fine tragica quanto opaca. Ma gli africani non lo dimenticarono. Ancor oggi, caso unico nel processo di decolonizzazione, la capitale del Congo ex francese porta orgogliosamente il suo nome e dal 2006 Pietro riposa in un mausoleo eretto sulle sponde del fiume Congo».
Fra i tuoi libri più recenti ricordiamo Patria senza mare, sui rapporti fra Italia e Mediterraneo; il saggio di geopolitica Confini e conflitti e Suez, il canale, l’Egitto e l’Italia. Insomma, verrebbe da dire che dove si intrecciano storia, politica e viaggio, là c’è Marco Valle.
«È il risultato di un percorso di studi e passioni, di approfondimenti e viaggi intrapreso tanti (troppi…) anni fa a Trieste e proseguito nel tempo. Ho avuto la fortuna di poter girare il mondo sia per esigenze professionali che per diletto cercando sempre di capire, di comprendere luoghi, genti, storie per poi raccontare, narrare, spiegare le complessità, le diversità, le contraddizioni. Insomma, non sarò un “viaggiatore straordinario” come i protagonisti del mio nuovo libro ma di certo sono un viaggiatore curioso. Molto curioso».
Una domanda non sul libro ma sull’autore: il poeta persiano Omar Khayyam ha scritto “La vita è un viaggio, viaggiare è vivere due volte”, mentre Mark Twain diceva che “I libri sono per la gente che spera di essere altrove”. Qual è il tuo rapporto con i viaggi e con l’altrove?
«A border is always a temptation, una frontiera è sempre una tentazione. Con queste secche parole James Cook liquidava gli scocciatori che lo importunavano con domande su “cosa” lo spingesse ad attraversare gli oceani, a cercare nuove terre e altri orizzonti. Una lezione di stile in cui mi ritrovo pienamente e che mi spinge a viaggiare e scrivere. A mio modo, con i miei ritmi e le mie fantasie, il più possibile distante dai “villaggi della cuccagna” del turismo di massa in cui tutto si riduce nello spostarsi in cerca di divertimenti più o meno illusori. È quell’ossessione dell’“homo turisticus” che Michel Houellebecq stigmatizzava in Piattaforma. Nel centro del mondo (Nave di Teseo, 2019): «Appena hanno qualche giorno di libertà, gli abitanti dell’Europa si precipitano all’altro capo del mondo, attraversando in volo metà globo, si comportano letteralmente come evasi dalla galera». Quando parto non lascio a casa la testa e tanto meno la penna…»
In un mondo sempre più piccolo, banale e standardizzato, c’è ancora spazio per lo spirito di avventura che ha animato gli esploratori del passato?
«Certamente. Ho voluto dedicare il capitolo conclusivo agli esploratori dell’ultimo scorcio del Novecento — Alfonso Vinci, Giancarlo Ligabue, i fratelli Castiglioni, Silvio Zamatti, Renato Cepparo, Giovanni Ajmone Cat, Carlo Mauri —raccontando le loro avventure in Amazzonia, in Africa, in Nuova Guinea, in Mongolia, ai due Poli. Altre storie incredibili, perfette per il cinema e la televisione anch’esse però scivolate subito nell’oblio. E poi dal 1985 vi sono i ricercatori italiani nell’Antartide, oltre quattromila scienziati e specialisti, impegnati in un complesso di progetti multidisciplinari d’estrema importanza ma, guarda caso, assai trascurati dai mass medi e per lo più ignoti al grande pubblico. Quasi la stessa sorte che avvolge la saga spaziale tricolore e i nostri validissimi astronauti, da Franco Malerba ad “Astro Samantha” Cristoforetti. A parte qualche articolo di colore e delle comparsate televisive, poco, pochissimo si parla della “grande partita stellare” che si gioca sulle nostre teste e tanto meno del contributo italiano — decisamente rilevante — nell’ultima frontiera dell’esplorazione umana».
Una piccola curiosità: il libro è dedicato a tua moglie Mara e all’associazione che lei dirige e che si occupa di ben altro genere di viaggi. Di che si tratta?
«Ho voluto dedicare questo lavoro a Mara e all’associazione “Luce per i 4 zampe” di cui lei è anima e motore. Da anni sosteniamo un rifugio in Puglia e, assieme ai volontari che ci aiutano, salviamo, curiamo e troviamo casa e amore a tanti (ma sempre troppo pochi) quattro zampe: gatti e cani scaricati nelle campagne, abbandonati lungo le strade, creature dimenticate, tradite, talvolta seviziate. Un piccolo, grande sogno nato da una promessa fatta a Luce, la prima cagnolina che abbiamo salvato e che troppo presto ci ha lasciato».