
L’idea che quella al Quirinale sia una “corsa” è solo un esercizio retorico, alquanto scadente. Non c’è mica da scomodare il futurismo: le elezioni presidenziali italiane, quest’anno più che mai, rappresentano uno spaccato dell’anima della classe dirigente del Paese. Che tutto è tranne che vorticosa, innamorata delle ascese e della velocità. Lente, compassate, convinte di esprimersi sornione e furbe. Bizantinismi spacciati per forme, conservatorismo allo stato brado. Supercazzole tonitruanti e retorica, paternali, richiami a chissà che per legittimare l’esistente. Anzi, il r-esistente, da decenni.
Diventa tradizione pure la burla del voto farlocco alle prime votazioni. Persino Claudio Lotito, che brama un seggio senatoriale che gli sfugge ogni giorno che passa, ha ottenuto suffragi al Quirinale. Si spera, per colmo di sfottò.
Intanto che si sprecano i richiami alti al futuro del Paese, si prepara l’avvento dell’ennesimo centrista, l’eterna riserva della Nazione, di una Nazione che a riserva – anzi a secco – ci sta ormai da decenni. Citando una battuta da quel film di Monicelli con Ugo Tognazzi: “C’è un grande futuro nel nostro passato”. Oppure. “C’è un grande passato nel nostro futuro”. Che tanto è lo stesso. Solo che di colonnelli suonati non ce ne sono più (per fortuna…) e proclami non ne vogliamo sentire. Inondateci col paternalismo di Stato! Vogliamo i democristiani! Ma ci accontenteremmo pure di un Giuliano Amato.
La liturgia funebre del catafalco (nomina sunt substantia rerum) saluta una volta per tutte il fallimento della Seconda Repubblica. E pure della Terza. Venticinque anni di bipolarismo non sono bastati a cambiare le istituzioni vetuste di una Repubblica nata sul compromesso. Dieci anni sono bastati a esorcizzare, definitivamente, la grancassa del populismo. Parole, parole, parole. Ma il pallino del gioco istituzionale è rimasto sempre in mano agli stessi. Fallimento da cui la destra stessa non è né può essere immune. Basta una domanda a certificarlo: com’è possibile attendere, invano per trent’anni, il presidenzialismo? Non è che si può sempre dare la colpa agli altri.
Intanto la sfilata di grandi elettori, (sì, li chiamano così manco fossero duchi di Sassonia e principi di Baviera) non serve ad altri che ai peones per darsi un tono sui social. Vedete, io sono qui. Decido le sorti del Quirinale. Intanto alle porte d’Europa spirano venti di guerra che già si ripercuotono sulle bollette. A voler usare la (loro stessa) retorica si abuserebbe, ancora, di quella frasaccia attribuita alla regina Maria Antonietta. O, a voler essere ggiovani, si dovrebbe citare Boris, l’Italia come “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Ma sarebbe ineducato: tra un po’ torna Sanremo.