È noto come non vi sia un modo solo di essere intelligenti. Di intelligenza esistono varie forme, anche se a mio avviso l’intelligenza nella sua espressione più alta è quella che consente – come dall’etimo latino “intus lègere”, “leggere ciò che all’interno” – di comprendere e penetrare la realtà, le sue manifestazioni (in primis gli altri esseri umani), e di rapportarsi nel modo più idoneo e proficuo alle situazioni che la vita propone. Possono esserci persone molto intelligenti e poco istruite (anche se in generale lo studio aiuta ad affinare le facoltà intellettive) e, viceversa, degli eruditi non particolarmente intelligenti.
Spostandoci sui creativi, sugli artisti, in particolare su quelli riconosciuti storicamente come “grandi artisti”, si finisce di solito per misurarsi con la categoria della genialità. La quale genialità, però, non è a ben vedere intelligenza all’ennesima potenza, ma semmai uno degli aspetti che l’intelligenza umana può assumere. Questo porta talvolta (direi anche abbastanza spesso) a una situazione paradossale, quella per cui l’opera di un autore è più intelligente di lui. Mi è capitato di costatare, in alcuni artisti, come il frutto della loro creatività risulti superiore alla loro intelligenza, tanto che si può essere indotti a domandarsi: “Possibile che questa persona abbia generato opere tanto grandiose, raffinate, originali? Opere, appunto, tanto ‘intelligenti’?”. Ecco, certe volte si registra un disallineamento, uno squilibrio più o meno forte tra quello che un artista ha partorito e ciò che egli esprime, come essere umano in relazione con i suoi simili, sul piano della pura intelligenza. È come se l’opera fosse il prodotto dell’intervento, o almeno della determinante collaborazione, di una forza superiore, esterna all’artista, che lo ha poi condotto a tanto rilevanti esiti. Se dovessi citare degli artisti in cui l’intelligenza (desunta essenzialmente dalle interviste da questi concesse e dai loro interventi pubblici) appare in piena armonia con l’opera, i primi nomi (italiani) che mi vengono in mente sono Fabrizio De André, Francesco De Gregori, Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene. Se li si ascolta parlare, si percepisce un livello – quanto a intuito, profondità, ironia ma anche proprietà di linguaggio – analogo o comunque non dissonante rispetto a quello delle loro opere. Sembra esservi insomma, tra artista e opera, una continuità piena. Se invece dovessi fare menzione di un artista che, nel parlare, mostra una consapevolezza e una brillantezza che non si ritrovano poi nei suoi lavori, citerei il fumettista Milo Manara.
Veniamo ora a Franco Battiato: benché non in modo sempre eguale nelle varie fasi della sua vita, durante la quale ha alternato momenti di ragguardevole lucidità e acutezza ad altri in cui si percepiva come un appannamento (mi riferisco naturalmente solo al segmento della sua esistenza in cui è stato compos sui, non agli ultimi anni), la mia – netta – impressione è che il suo sia un caso nel quale l’opera è, nel complesso, più “intelligente” di chi l’ha generata. È verissimo che alcune interviste rilasciate da Franco sono, quasi in ogni loro parte, entusiasmanti (ho tessuto in più occasioni l’elogio di “Tecnica mista su tappeto”, libro formidabile), ma tante altre ve ne sono in cui il suo intelletto appare come più debole, limitato; interviste nelle quali non manca il ricorso a luoghi comuni, frasi fatte, demagogia, perfino populismo. Tutti “difetti”, o cadute, da cui – tranne forse rarissime eccezioni (non so, “Inneres Auge”?) – la sua opera è sempre stata esente. La mia, lo sottolineo, è una pura presa d’atto, che in fondo implica e contiene in sé l’esaltazione massima di quanto Battiato ha, peraltro copiosamente, prodotto durante la sua vita. Ritengo anzi si debba dire che il corpus artistico di Battiato, il suo repertorio, sia un esempio supremo di genialità: quel che lui ha creato è al massimo grado geniale – una volta che ci si sia bene intesi sulla distinzione fra genialità e intelligenza – proprio poiché supera, trascende l’intelligenza del suo fattore.