Incastrati, imprigionati, incollati a Netflix gli spettatori della serie tv Incastrati ideata, diretta e interpretata da Ficarra&Picone. Con tanto di e-commerciale, perché – se non è ancora chiaro- Salvo Ficarra e Valentino Picone sono una formidabile ditta, capace di tradurre un dono di natura (fare ridere) in capitale di consenso, successi, botteghino e progettualità.
I due geni della comicità sono stati sedotti, pure loro, dalla moda della serialità, l’omeopatia di questi anni lenti barricati al di qua dell’abitudine. Sedotti a modo loro. Tecnicamente dovrebbe dirsi parodia, la gran presa per i fondelli che Salvo e Valentino fanno alle serie tv, al genere giallo (sovrabbondante e noioso che spopola anche nelle librerie), alla fiction poliziesca. Al poliziesco e al giallo servono pochi ingredienti: un delitto, un assassino, dei sospetti, degli investigatori, qualche colpo di scena, la suspence; se il delitto è consumato in Sicilia si aggiungono l’immancabile mafia e il sistema burocratico-politico a traino.
Ficarra e Picone li mettono tutti nell’insalatona di Incastrati: d’altronde, alcuni di quegli ingredienti non sono estranei ai loro film. Il rischio era di sbarcare in Tv con la soma di tutti i loro cliché, sebbene per Ficarra e Picone la ripetizione sia disinvolto uso della macchina comica. In effetti, se niente di nuovo sembra esserci nei sei brevi episodi di questa prima serie –prima, perché insinuare sul sequel è già una strategia di mercato e le ultime battute della fiction insinuano-, se serie tv deve essere e non può se non essere tinta di giallo per i due attori che sia fatto, almeno, con cultura e intelligenza. Intanto, vedo spuntare la faccia di Tony Sperandeo, uno dei mafiosi di Incastrati, che mi punta una pistola e urla anche a me “Basta! Troppi verbi!”.
Capolavoro di arguzia
Cultura e intelligenza, tanto il garbo, va da sé: su questo Ficarra e Picone hanno messo un’ipoteca preziosa, perché riescono a far ridere senza mai una volgarità, senza mai una vanzinata. Incastrati nel triangolo comicità, cultura e intelligenza Ficarra e Picone finiscono per scrivere, dirigere e interpretare un divertentissimo manifesto di metanarrazione. Di se stessi, del linguaggio televisivo, dell’Italia dopo le grandi stragi di mafia.
Di se stessi. Incastrati cita tutto il mondo cinematografico di Salvo e Valentino con qualche piccola correzione. Le loro due maschere comiche, il furbo e traffichino contro il candido e integro, prendono una lieve sbandata. Ficarra appare tenero e Picone intraprendente, giusto il tempo di un barlume. Si può rischiare di intravedere un bisogno di uscire dal loro stereotipo? Finora, infatti, hanno investito sul rapporto faccia-ruolo, interpretando il concetto di maschera in maniera antipirandelliana e riallacciandosi alla tradizione classica. Classici diventano, in quest’ultimo lavoro, gli stessi Ficarra e Picone: di antenati non mancano (come confessano nel bel libro E’ la coppia che fa il totale di Ornella Sgroi), ma qui è chiaro che possono generare eredi, tanto è maturo ed esemplare il loro approccio alla materia comica. Anche se a dire il vero di eredi, a oggi, non se ne vedono. Nella serie, però, sono accompagnati da un vero catalogo della comicità: Toti e Totino e la comicità demenziale, Tony Sperandeo e la perfezione del grottesco, Domenico Centamore macchietta ipertrofica e slabbrata, Sergio Friscia e la satira ( le sue battute riciclate inchiodano quanto c’è di dilettante e cinico nel giornalismo locale) e per finire Leo Gullotta, nei panni del procuratore Nicolosi, quintessenza dell’ironia. Senza dimenticare le belle prove di Mary Cipolla e di Anna Favella, madre e sorella di Valentino (questa pure moglie di Salvo: quanto amano imparentarsi nei film!), due vere caricature.
Il linguaggio televisivo
Caricaturale è soprattutto il linguaggio. La mimica delle facce molto marcata, di tutti i personaggi, fa il paio con i calembour di Salvo e Valentino degni del Totò che ti aspetti: “Che vita abbiamo? Una vita piatta: siamo vitapiattisti” ricorda Totòtarzan di “Sono un uomo della foresta, un forestiero”. E così via, con una mitraglia di trovate e battute che solo loro due sono in grado di inanellare con tanta grazia e forza. Anche nella spudorata citazione da Sedotta e abbandonata dell’amato Pietro Germi “Troppo comodo, troppo comodo e troppo facile, troppo comodo, troppo facile e troppo semplice”. O quando le battute sono riferite al poliziesco “The touch of the Killer”, la serie su cui Salvo ha una tale fissa da scambiare la finzione con la realtà: Salvo si immedesima nell’investigatore, rigorosamente di colore (sfottò al correct americano?), sciorina tutta la sua sapienza poliziesca fatta di prova stub, testimonianze di parenti, pulizia delle impronte, mentre sullo schermo si sovrappongono le immagini della fiction (mai termine fu tanto didascalico). Metanarrazione di alto livello e potremmo anche noi sciorinare tutte gli elementi di riflessione del e sul genere. Ma siamo a casa di Ficarra e Picone ed è meglio provare a non farci incastrare nella seriosità. Perciò, siamo sicuri che la battuta “Salvo, non piangere che le lacrime contengono DNA” appartenga solo alla finzione piconiana o invece alla nuova massificazione della televisione generalista per cui molti di noi hanno pensato, anche per una frazione di secondo, di saper rubare meglio del professore di La casa di carta, essere scazzati come Rocco Schiavone o saper smanettare con la tecnologia come l’entomologo forense di CSI? E poi il titolo The touch of the killer (Ellery Queen intitolò il suo romanzo “The killer touch”) non potrebbe metterlo lo sceneggiatore “fai da te” che mastica l’inglese di “the cat is on the table”? A proposito di inglese, il doppiaggio per i Paesi anglofoni provoca uno straniamento: vedi Picone e pensi a Stanlio. Ridi pure per questo.
Satira pungente sulla mafia
Ridere sulla mafia per scrittori e registi siciliani non è solo un escamotage artistico. E’ il segno di un impegno antimafia meno stucchevole e più efficace di tanta antimafia ufficiale. E’ Pif con la sua La mafia uccide solo d’estate, è Roberto Alajmo da E’ stato il figlio in poi (il film con la regia di Daniele Ciprì che in Incastrati ha curato al fotografia), è I topi di Antonio Albanese, è il grottesco di Luigi Lo Cascio che fa Totuccio Contorno in Il traditore. Ficarra e Picone, che del binomio arte e impegno sono cifra discreta e viva, fanno parte di questa schiera di autori: Incastrati incastra mafia e antimafia.
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Se si possono perdonare le autocitazioni di loro due davanti alla scrivania dell’inquirente o del politico o del mafioso (vedi Il 7 e l’8 oppure Nati stanchi), le scene con Leo Gullotta sono un necessario esercizio di memoria. Memoria delle difficoltà di catturare i boss latitanti della porta accanto: le foto da bambino del boss, mostrate dagli inquirenti, ricordano il balletto delle immagini di Messina Denaro? Memoria di Paolo Borsellino: “E finalmente, caro Girolamo, lo prenderemo” dice commosso il procuratore Nicolosi, davanti a una foto che ricorda la foto icona di Tony Gentile a Falcone e Borsellino. Mentre il gioco di parole trasforma Cosa Nostra in Cosa Inutile e il mammasantissima in padresantissimo, il discorso del boss, interpretato da Maurizio Marchetti, è un magistrale atto d’accusa di Ficarra e Picone, che segue idealmente il capolavoro L’ora legale. Nel discorso del capomafia, il capovolgimento comico fa della politica il referente del popolo per “risolvere quei problemi che una volta gli risolvevamo noi…siamo arrivati al punto che è la politica che oggi nomina i candidati elettorali e noi siamo pure costretti a votarli turandoci il naso”. Parole pronunciate dal boss mentre trita e mette in pentola basilico verde, cipolla bianca e pomodoro rosso. La commedia è servita o per dirla con Gullotta- Nicolosi “deve essere una bella commedia!”. Caro Gullotta, lo è.