Tareq Aziz era la faccia buona del regime di Saddam Hussein. O quanto meno il volto diplomatico, spendibile sulle televisioni internazionali così come nelle cancellerie occidentali e presso la segreteria di Stato vaticana. In tutti gli anni in cui ha ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri dell’Iraq, Aziz ha sempre cercato di presentare il governo di Baghdad in maniera moderata, insistendo sugli aspetti modernizzanti, laici e socialisti dello Stato baathista.
Ricordiamo la sua figura apparire in ogni telegiornale, in giacca e cravatta o in divisa militare, intento a persuadere Russia e Cina ad appoggiare il regime iracheno contro l’invasione americana dell’Iraq; a parlare alle Nazioni Unite; a incontrare in Vaticano papa Giovanni Paolo II e altri leader europei in un ultimo tentativo di evitare la guerra. Nel corso di questi incontri Aziz cercava sempre di spiegare all’opinione pubblica occidentale che un attacco americano all’Iraq sarebbe stato percepito dai musulmani di tutto il mondo come un attacco alla loro religione e avrebbe avuto terribile conseguenze. Anni dopo ce ne siamo accorti.
Aziz, di famiglia cristiana caldea
Nato nel 1936 da una famiglia cristiano caldea, Aziz era laureato in letteratura inglese e con il suo look da professore universitario (occhiali spessi con montatura di corno, capelli e baffi grigi, un sigaro fra le labbra) ha rappresentato per oltre trent’anni la componente moderata del partito socialista panarabo iracheno Baath, nel quale era entrato da fin da giovanissimo. E per oltre trent’anni è stato fedelmente al fianco di Saddam. Anzi, lo è stato persino dopo l’uccisione del Raiss: anche nei processi che gli vennero intentati dopo il 2003, l’ex ministro degli Esteri ha sempre difeso le scelte politiche del leader iracheno e del governo di Baghdad.
Per il suo ruolo diplomatico e politico piuttosto defilato nelle attività repressive del regime, Tareq Aziz (il cui vero nome era Mikhail Yuhanna), non venne inserito dall’esercito americano nell’elenco dei principali gerarchi da arrestare o eliminare. Nel famoso mazzo di carte distribuito ai soldati Usa il volto di Tareq figurava come l’otto di picche, solo al 43° posto nella lista dei ricercati. Eppure, malgrado una sostanziale lontananza dalla deriva più violenta e criminale del regime, Aziz ha subito svariati processi (in un’occasione fu anche assolto e scarcerato) e nel 2010 è stato condannato a morte per le persecuzioni ai danni degli sciiti. Una pena mai diventata esecutiva per l’intervento dell’Unione europea, che tuttavia il braccio destro di Saddam, negli ultimi mesi, rivendicò quasi come un diritto. Ieri un infarto ha messo fine alla sua prigionia.
Il socialismo nazionale arabo dalla Siria all’Iraq
Con Tareq Aziz se ne va uno degli ultimi protagonisti del grande progetto politico panarabo teorizzato negli anni Quaranta dai siriani Michel Aflaq e Salah-al-Din al Bitar, ideologi di un socialismo nazionale laico e modernizzante che unisse tutti i popoli arabi del Nordafrica e del Medio Oriente. Un progetto che, di fatto, sia pure con caratteristiche diverse, tra gli anni Cinquanta e Settanta si era affermato nell’Egitto di Nasser, nella Libia di Gheddafi, nella Siria di Afez al Assad e appunto nell’Iraq di Saddam Hussein.
Nell’ultima intervista, rilasciata nel 2010 al giornale inglese The Guardian, Aziz ha lasciato una sorta di testamento politico, che è suonato anche come un epitaffio per il destino del suo Paese:
«Per 30 anni Saddam ha costruito l’Iraq, ora è tutto distrutto. C’è gente malata come mai prima, gente affamata. Non hanno servizi. Vengono uccisi ogni giorno a decine, se non a centinaia. Sono tutte vittime dell’America e della Gran Bretagna. Hanno ucciso il nostro paese».
E ancora, nel 2010, Aziz non aveva avuto modo di vedere la rovina dell’Iraq contemporaneo, ormai per più di metà nelle mani dell’Isis, cioè di un movimento politico-religioso che rappresenta l’antitesi oscurantista, efferata e medievale del sogno baathista.