Che si giunga alla tregua umanitaria temporanea o che l’esercito israeliano scateni un massiccio e brutale attacco contro la cittadina di Rafah, dove è schiacciata la gran parte dei due milioni e duecentomila palestinesi di Gaza impossibilitata a fuggire altrove, ci si deve comunque chiedere quali siano i piani di Netanyahu per il dopoguerra. Ovvero, quale situazione si debba verificare perché lui e il suo governo considerino esaurita con successo la loro missione militare.
La linea ufficiale è quella che si deve continuare a combattere fino all’eliminazione totale di Hamas. Un obiettivo, ad oggi, assai difficile da raggiungere considerando che l’organizzazione islamista, sia pur duramente colpita, è ancora in grado di lanciare razzi contro Israele e di impegnare l’esercito in scontri mordi e fuggi. Senza voler considerare, poi, che anche se si avesse l’ipotetica certezza di avere ucciso tutti i guerriglieri fino all’ultimo, non è assolutamente da escludere che, entro qualche anno, nuove leve, ancora più incattivite dalla brutalità del conflitto, vengano a prendere il posto dei “martiri”.
Una parte della società israeliana una sua soluzione soddisfacente per il futuro della Striscia l’ha già trovata. A Gerusalemme si è svolto un convegno nel quale i presenti potevano prenotare l’acquisto di una confortevole villa davanti al mare in nuovi moderni villaggi che dovrebbero prendere il posto di quelli dei palestinesi, ormai devastati. Su dove finiranno i precedenti abitanti si è rimasti sul vago, ma sembra chiaro che, in un modo o nell’altro, dovranno semplicemente sparire. Attenzione, non si tratta di un’iniziativa del tutto campata in aria poiché a questo meeting immobiliare erano presenti diversi esponenti del governo che hanno garantito il loro appoggio.
Lo stesso capo del governo israeliano non pare avere in testa una soluzione certa per il “dopo”, avendo iniziato la guerra solo sull’onda dell’indignazione per il sanguinario eccidio del 7 ottobre, senza piani precisi per il lungo periodo, ma cercando attraverso il conflitto di recuperare la popolarità perduta. Se si dà fede a certe sue dichiarazioni, alcuni punti però li ha già stabiliti. Ha infatti dichiarato che formerà un comitato per portare l’intera Cisgiordania sotto la sovranità israeliana e che non ha nessuna intenzione di affidare la Striscia ai “moderati” dell’Autorità nazionale palestinese, come molti ipotizzano, ma intende mantenervi un controllo militare non meglio precisato. All’interno di Israele si riaffaccia dunque l’eterna divisione tra oltranzisti come Netanyahu, ma alcuni ministri dell’ala “messianica” del suo governo sono più estremisti di lui, e quelli che potremmo definire “trattativisti”. La questione che li divide è come affrontare il profondo “fastidio” di condividere in parte la Terra Promessa con una popolazione non ebraica. Alcuni politici, nel corso della loro vita sono passati da una posizione all’altra, come il duro Rabin che poi firmerà gli accordi di Oslo del 1993, una concessione non poi così grande se si pensa che Arafat accettò una finta sovranità solo sul 22% della Palestina storica.
Che uno Stato come Israele, sorto sulla base dello slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” fatichi a trovare un modus vivendi equo con una popolazione straniera, considerata usurpatrice di parte del territorio, dal punto di vista delle Sacre scritture, non è sorprendente. La radice del sionismo non contempla un altro popolo oltre a quello ebraico. La madre della patria Golda Meir, nel 1969, dichiarò in tutta semplicità che i palestinesi non esistevano affatto; lo stesso Rabin, prima della svolta “trattativista”, li definiva i “cosiddetti Palestinesi”. Nella narrativa prevalente sulla questione palestinese, in Occidentecontinua a campeggiare il “mito” della grande occasione persa da Arafat a Camp David nel luglio 2000, quando Barak gli avrebbe offerto la piena sovranità sul 90-95 per cento dell’intera Cisgiordania. Non viene però evidenziato il fatto che quella proposta includeva la premessa che, nell’area, sarebbero rimasti 50 insediamenti di coloni, su un territorio di oltre il 40% dell’ipotetico Stato palestinese, e che l’esercito israeliano avrebbe continuato a controllare militarmente la valle del Giordano. Inoltre, nonostante le promesse israeliane, i palestinesi non si sarebbero riappropriati di Gerusalemme Est facendone la loro capitale. La città sacra sarebbe stata invece sostituita dal vicino villaggio di Abu Dis. Insomma, una vera truffa, escogitata a mezzo di stratagemmi linguistici inseriti nelle carte delle trattative.
Come ha scritto Ilan Pappé, il principale dei cosiddetti nuovi storici israeliani: “Fino a che Israele rimane ciò che è, anche un ritiro israeliano da parti della Cisgiordania, con la conseguente creazione di uno Stato palestinese fatto di bantustan, non fermerà l’espropriazione e la pulizia etnica iniziata nel 1948. D’altronde, i bantustan non hanno messo fine all’apartheid in Sudafrica”. I politici che, in Israele, diversamente dagli oltranzisti laici e religiosi, appaiono più disposti a cercare accordi, hanno sempre seguito un’estenuante tattica dilazionatoria. Lo aveva ben spiegato il celebre intellettuale palestinese Edward Said: “Ciò che non sembra essere chiaro, neanche ai pacifisti, è il ritmo incredibilmente lento ed insieme tortuoso dei passi israeliani:piccole cessioni di territori vincolate a migliaia di condizioni; molte, troppe ore passate a negoziare una serie di complicatissime condizioni poste da Israele: la costruzione continua di nuovi insediamenti, le nuove suddivisioni, e le strade che tagliano Gaza e la West Bank sempre più nettamente, le frequenti chiusure, l’uso continuato delle torture, le violenze dei coloni”. Ciò è asseverato dal fatto che nessun governo israeliano ha mai smantellato alcuna colonia, ma tutti ne hanno costruite di nuove, in particolare il “moderato” laburista Barak. A testimonianza che Netanyahu non è un Hyksos crociano precipitato dal nulla a sconvolgere la abituale ragionevolezza politica israeliana, come vorrebbero molti osservatori che prendono le distanze da lui per lavarsi la coscienza e continuare a sostenere la causa sionista.
Oggi, però, non è comunque il momento dei “trattativisti”, ma di quelli che vogliono risolvere la questione palestinese in modo drastico. Sull’ultimo numero di Limes Antonella Caruso ha evidenziato “la prospettiva di un esodo forzosamente volontario oltre il confine. Non la nascondono ministri, politici, militari e analisti finanziari che, fin dall’inizio della guerra, hanno evocato una seconda Nakba”. La Nakba, si ricorderà, fu la sanguinosa pulizia etnica che, nel 1948, costrinse centinaia di migliaia di palestinesi ad abbandonare le proprie case e i territori nei quali vivevano da innumerevoli generazioni. Tutt’oggi sei milioni di palestinesi vivono in esilio, molti dei quali ancora confinati nei campi profughi. L’attuale ministro delle Finanze Smotrich, capo del Partito sionista religioso, ha elaborato un “piano per la vittoria definitiva”, nel quale si afferma che ogni questione si risolverà quando la maggioranza della popolazione della Cisgiordania sarà composta da ebrei. Ciò potrebbe essere raggiunto con l’ampliamento delle colonie e con un’emigrazione di massa dei palestinesi dalla regione. A queste parole si aggiungano i fatti: dall’inizio della guerra in Cisgiordania, dove pure i palestinesi erano rimasti abbastanza tranquilli, si sono ulteriormente moltiplicate le incursioni dei coloni armati e dell’esercito che, al costo di centinaia di vittime, hanno strappato territori ai residenti e ne hanno distrutto i campi agricoli.
Con un esercizio di ottimismo, arriviamo a credere che i progetti degli estremisti sionisti di una nuova generale pulizia etnica non arriveranno del tutto a compimento. Il presidente egiziano Al Sisi, per esempio, si sta opponendo al trasferimento della popolazione di Gaza nella penisola del Sinai e le pressioni internazionali ostacoleranno una smaccata deportazione di massa dei palestinesi. Quello che crediamo ci si possa aspettare è una permanente massiccia presenza militare a Gaza che diventerà definitivamente quel carcere a cielo aperto a cui già ora assomiglia, insieme a un ulteriore appropriazione da parte dei coloni di terre in Cisgiordania per rendere ancora più impossibile la vita ai palestinesi e indurli all’emigrazione. Qualcuno pensa che gli Stati Uniti, impegnati in questo momento in un tentativo di ammorbidimento di Netanyahu, si opporranno a uno scenario del genere. Ma è un’illusione. Biden, oggi, fa la parte del moderatore perché vuole evitare un’escalation bellica in Medio Oriente, con il coinvolgimento dell’Iran, che costringa gli Stati Uniti a intervenire militarmente, distraendoli dai fronti principali: il conflitto con la Russia in Ucraina e, soprattutto, il confronto con la Cina nel medio periodo. D’altronde, l’appoggio Usa, quasi senza condizioni, ad Israele è testimoniato dal fatto che, nonostante la guerra di annientamento condotta dalle forze dell’Idfa Gaza, l’Amministrazione Biden, come ha evidenziato ForeignAffairs nel numero di febbraio, dal 7 ottobre gli “ha fornito un livello di aiuto e supporto militari senza precedenti”.
Resta da vedere come si comporterà l’Europa se, dopo la fine della guerra, la situazione dei palestinesi diventerà come quella che abbiamo prospettato, con un notevole restringimento degli spazi vitali. Crediamo, però, che ci sia poco da aspettarsi, oltre a qualche generica invocazione alla pace. Quanto al governo italiano, è acriticamente schierato su posizioni di oltranzismo sionista, al di là di una blanda invocazione della soluzione dei “Due Stati”, ormai impraticabile. Giorgia Meloni e i suoi dovrebbero però almeno ricordarsi che, nella tradizione della politica estera italiana, ci sono state anche personalità, come Fanfani, Moro, Andreotti e Craxi che, pur controverse per altri aspetti, la drammatica condizione dei palestinesi non facevano finta di non vederla.