Vincere in rimonta, farlo in casa loro. Con un gioco sfibrante e sconclusionato, al cospetto di avversari che, oltre alla spocchia, non avevano granché. Loro cantavano: It’s coming home. Solo che il pallone è rotondo e degli inviti se ne frega, va soltanto dove dice lui.
L’Inghilterra di Southgate ci ha mostrato che la sua forza autentica è nel soft-power. La “dominazione” culturale: il calcio dei maestri, la Premier League stellare, il mito del football. Il gioco rude ma cortese, il fair play. La sportività prima di tutto. Prima, durante e dopo la partita di Wembley, i sudditi di Sua Maestà ce l’hanno messa tutta a smantellare la loro stessa narrazione. Sterling che fa il tuffatore, la squadra che si chiude a catenaccio (ah, Gary Lineker!), i tifosi che fischiano gli avversari e insolentiscono l’inno italiano. Lo stadio che, alla paratissima di Gigio Donnarumma, si svuota letteralmente mentre i beniamini di casa si sfilano le medaglie al collo. Siamo proprio sicuri che, al prossimo aedo commosso dei costumi d’oltremanica, non tireremo appresso una solenne pernacchia?
L’Italia di Roberto Mancini ci ha mostrato che l’allenatore conta. E conta anche il suo staff, altroché. A Wembley, il Mancio, Luca Vialli e Attilio Lombardo hanno alzato – idealmente – quella Coppa dei Campioni che la botta fetente di Koeman, trent’anni fa, negò alla splendida Sampdoria di Mantovani, forse l’ultimo dei presidenti umani troppo umani che il calcio italiano abbia avuto.
Che non sia stata una Nazionale schiacciasassi è vero. Che qualche volta si sia ballato troppo, è altrettanto vero. Del resto lo sapevamo dall’inizio e, siamo franchi, da questa Italia, non ci aspettavamo nulla. Ecco, questa è stata la forza della Nazionale: non avere niente da perdere, una condizione quasi zen che ti consente, come a Chiellini contro la Spagna, di affrontare quel che viene con la gioia di vivere, con la leggerezza che cozza – terribilmente – con un calcio che s’è fatto serioso e intellettualoide, politicante.
Le polemiche politiche ci hanno annoiato durante gli Europei. Ma il marketing ha scovato nella politica l’ultima e più decisiva leva commerciale per fidelizzare il cliente. Lasciate perdere. Il pallone, certe dinamiche, non le concepisce: basta vincere e tutto è dimenticato, come ci ha svelato quel vecchio saggio di Fabio Capello. Le articolesse lasciano il tempo che trovano. Puzzano di ridicolo le righe di chi, fingendo d’esultare, invita gli italiani a pagare finalmente le tasse come gesto patriottico. Il solito tafazzismo autocalunniatore. Il tentativo di imbandierare il carro dei vincitori è un vecchio vezzo della politica.
Il grosso guaio, però, è un altro ancora. La vittoria italiana ha mandato ai pazzi gli abachi della contabilità finanziaria. E probabilmente nessuno prenderà più in giro né Gigio “Dollarumma” né ‘o tiro a ggiro di Lorenzo Insigne, a cui qualcuno dovrebbe pur degnarsi di dargliela questa maledetta maglia “Dieci” al Napoli. E come si potrà ancora dire che Federico Chiesa non è uno splendido talento furioso?
Nel calcio conta solo chi vince, la buon’anima di Boniperti non aveva torto. Altro che retorica, altro che bel gioco, altro che narrazioni, altro che soft-power. Oggi ha vinto l’Italia, quella a cui nessuno – chi scrive per primo – non concedeva un briciolo di speranza e ha perso, ancora, l’Inghilterra dei maestri. Che non vince nulla dall’era cretacica del football.
L’Inghilterra, spocchia a parte non era certo granchè. Ma ci voleva l’errore colossale del loro allenatore che fa battere gli ultimi 2 decisivi penalties da dei ragazzetti neri impauriti. Voleva, forse, farsi bello con i promotori ad oltranza delle società multietniche, ma invece è solo stato un enorme fesso. Comunque, Viva l’Italia!
Visto che porta pure sfiga, per fortuna nostra agli inglesi, spero che i promotori ad oltranza del ‘Black lives matter’ la smettano di rompere gli zebedei…