Restando in Estremo Oriente, passiamo in Vietnam, dove la disciplina tradizionale più diffusa e praticata è il Viet vo dao (il nome risale al 1973, quando fu effettuato il primo tentativo di unificazione amministrativa e giuridica delle arti marziali vietnamite).
Si tratta in sostanza della sintesi delle discipline del citato Paese del Sud Est asiatico e “si basa – è spiegato nel sito vietvodao.it – sulla codifica delle tecniche marziali e dei principi di varie scuole appartenenti a diverse tradizioni. Ne deriva quindi una disciplina ricca e completa sotto tutti i punti di vista. L’allievo comincia a conoscere il proprio corpo tramite una ginnastica completa che coinvolge non solo il fisico, ma anche la mente: vengono inizialmente introdotte tecniche di braccia e gambe e successivamente si apprendono tecniche acrobatiche, di proiezione, lotta corpo a corpo e difesa personale. Infine l’allievo viene istruito sull’uso delle armi”, ovvero il bastone, la sciabola e la spada. “Determinanti sono anche gli esercizi di respirazione e meditazione che, con opportune tecniche di visualizzazione e percezione, vengono utilizzati per favorire il naturale flusso del Khi (energia vitale) e uno stato di buona salute”.
Il Viet Vo Dao (i termini che compongono il nome della disciplina significano rispettivamente: trascendente/vietnamita; arte marziale; Via, cioè insieme dei principi della vita e della saggezza che conducono ad uno scopo supremo) “è un’arte marziale per tutti che, attraverso una pratica costante e una ricerca interiore, consente di comprendere e sviluppare le proprie potenzialità per vivere in armonia con gli altri”.
Quanto al nostro Paese, nel 1980 è stata creata la Federazione Viet Vo Dao Italia (il cui evocativo motto è “Essere forte per essere utile”), che è tuttora l’unica associazione sportiva della Penisola a poter utilizzare legalmente il nome “Việt Võ Đạo” ed il distintivo della Federazione Internazionale.
Attraversando ancora un altro confine, arriviamo in Tailandia, dove la disciplina più antica, nota e diffusa è sicuramente il Muay Thai, o boxe thailandese. Si tratta di un’arte marziale da combattimento a contatto pieno che deriva da un’antica tecnica di lotta thailandese chiamata Mae Mai Muay Thai, che affonda le sue radici nell’antico Regno del Siam (attuale Thailandia). Come per altre arti marziali, le sue origini sono antichissime ma poco documentate, anche perché nel corso dell’invasione del Paese ad opera della Birmania (seconda metà del 1700), gran parte degli archivi storici e culturali andarono distrutti.
Il Muay Thai, evolutosi nel corso dei secoli fino a raggiungere la forma odierna, utilizza una vasta gamma di colpi e tecniche di lotta. Nota come “l’arte delle otto armi” (pugni, calci, ginocchia e gomiti), vede i praticanti (chiamati Nak Muay) sfidarsi utilizzando combinazioni di pugni, calci, gomitate e ginocchiate e richiede una intensa preparazione atletica e mentale. Ci sono chiaramente anche varie tecniche di difesa, che raccolgono tutti i metodi a tal fine sviluppati dai thailandesi nei secoli passati (tra essi: finte, schivate, blocchi, prese e proiezioni).
Divenuto molto popolare in patria nel XVI secolo, quando i cittadini dell’allora Siam erano soliti organizzare spesso feste ed incontri (si combatteva senza regole né categorie di peso e senza limiti di tempo fino al crollo di uno dei contendenti), il Muay Thai all’estero si diffuse soltanto a partire dal XX secolo dopo varie modifiche regolamentari. Oggi, comunque è considerato “una disciplina sportiva completa – riferisce Pro fighting Roma – che non ha perduto le sue nobili e antiche origini” e nemmeno “i suoi riti dai significati sociali e religiosi”. Riti prevalentemente pre-combattimento, che sono molto importanti per gli atleti perché in essi ricercano concentrazione, tranquillità e favore degli spiriti benigni. Tra essi l’entrata nel ring (Kuen Suu Weitee), la Ram Muay (danza rituale eseguita con movimenti lenti e simbolici) e la Pitee Tod Mongkon (l’allievo va verso il suo maestro che recita silenziosamente preghiere e formule propiziatorie; quindi pronuncia la formula “da uomo diventi guerriero” e toglie dalla testa dell’allievo il Mongkon – copricapo fatto di corda, seta e altri materiali intrecciati – e lo pone sul proprio angolo in funzione di protezione).
A conclusione di questo nostro breve percorso tra le arti marziali non giapponesi, non si può non citare quella che, oltre ad essere tra le più diffuse al mondo, dal 2000 è anche disciplina olimpica ufficiale. Ovvero la coreana Taekwondo (Tae – colpire col piede; kwon – pugno; Do – arte/Via. Dunque la traduzione del termine può essere grossomodo “arte dei calci e dei pugni”).
Questo metodo di combattimento era praticato in Corea sin dal 1° secolo a.C. ma è solo nella seconda metà del 1900 che si afferma anche come disciplina sportiva, “distinguendosi dagli altri sport marziali – è spiegato nel sito della Federazione Italiana di Taekwondo – per la particolare efficacia, dinamismo e spettacolarità delle sue tecniche di gamba (calci circolari ed in volo, calci multipli)”. La disciplina in esame combina i citati elementi di combattimento alla difesa personale e, in alcuni casi, alla filosofia e alla meditazione.
Sport nazionale in Corea del Sud già dall’inizio degli anni ’60, il Taekwondo si è poi diffuso in tutti i continenti (i Paesi affiliati alla World Taekwondo Federation – fondata a Seul nel maggio del 1973 – sono 210, per un totale di 70 milioni di praticanti). Gli atleti, divisi per sesso, età e categorie di peso (otto), indossano la tradizionale divisa bianca (dobok) con cintura, sono muniti di protezioni (casco e corpetto) e si affrontano su un quadrato (o su un ottagono) di 8m x 8m.
Va precisato, infine, che esistono tutt’ora un Taekwondo sportivo e uno tradizionale.
Il primo è la branca della disciplina focalizzata più sulla competizione e dunque sul confronto agonistico e sulla velocità di esecuzione. Quanto al secondo, è l’arte marziale così come fu codificata negli anni Cinquanta del secolo scorso nelle Forze Armate della Repubblica di Corea e in varie organizzazioni civili (come scuole e università). In tale ambito, “nomi e simbolismo delle strutture tradizionali fanno spesso riferimento – si legge in un articolo on line sull’argomento – agli elementi della storia della Corea, della sua cultura e della sua filosofia religiosa”.
Per descriverne l’essenza, a conclusione di questo nostro breve viaggio, valgono le parole del generale Choi Hong Hi, fondatore, nel 1966, della International Taekwondo Federation (antesignana dell’attuale World Taekwondo Federation), che nello stabilire la filosofia e i principi base della disciplina (cortesia, integrità, perseveranza, autocontrollo, spirito indomito), da rispettare nella pratica e nella vita, disse: “Spero sinceramente che attraverso il taekwondo ogni uomo possa acquistare la forza sufficiente per arrivare a essere il guardiano della giustizia, opponendosi ai conflitti sociali e coltivando lo spirito umano al livello più alto possibile”.
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