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Oggi, 10 febbraio, Giornata del Ricordo, si commemorano le migliaia di italiani vittime delle stragi effettuate dai partigiani titini appartenenti alle bande jugoslave nel 1943-1946. Alcune vittime erano fascisti; altre, personalità delle comunità giuliano-dalmate: farmacisti, medici, prefetti, presidi di scuole, altri ancora semplici italiani. Tutti furono sottoposti a violenze inaudite, nel quadro di una vera e propria pulizia etnica. Spesso venivano fatti scomparire di notte e, dopo torture e violenze di ogni genere, gettati, con le mani legate dietro la schiena con fil di ferro, nelle numerose cavità carsiche di quelle zone. Molti uomini, donne, bambini sono scomparsi e di loro non si è più saputo nulla, non si è trovata traccia. Di tanto in tanto, alcuni corpi straziati sono stati rinvenuti nelle cavità carsiche. Come se la pietà restituisse le testimonianze di un immane sacrificio. Approssimativamente si parla di 20 o 30mila italiani vittime della “pulizia etnica”. Gli italiani sopravvissuti, originari dell’Istria, della Dalmazia, del Carnaro, hanno perso tutto, tranne la propria identità. Il 10 febbraio del 1947 fu firmato a Parigi il diktat di pace con il quale le potenze alleate tolsero all’Italia Pola, gran parte dell’Istria, Fiume, Zara, le isole adriatiche per assegnarle alla Jugoslavia. Carla Isabella Elena Cace è una giornalista professionista e storica dell’arte. E’ esule di terza generazione, proveniente da un’antica famiglia di medici patrioti di Sebenico. Mantiene il Ricordo, ha l’orgoglio dell’appartenenza e l’amore per l’Italia. Sul tema del Confine Orientale, ha scritto Giuseppe Lallich, dalla Dalmazia alla Roma di Villa Strohl-Fern, Foibe, martiri dimenticati, Foibe, dalla tragedia all’esodo (Pagine ed.) e Magazzino 18. Le foto (Fergen ed.), scritto con Jan Bernas e con prefazione di Simone Cristicchi. Nel 2009 ha curato la celebre mostra sulle foibe al Vittoriano. Da qualche settimana è presidente dell’Associazione Nazionale Dalmata e componente dell’esecutivo nazionale del Comitato 10 Febbraio.
Dal 10 febbraio del 2004, quando fu istituita la Giornata del Ricordo, si commemorano le vittime di quell’olocausto che fu compiuto, gettando nelle foibe circa 30mila italiani del confine orientale italiano, dalle bande titine comuniste. Una strage che ancora oggi non è ben conosciuta. Perché, secondo lei, c’è voluto tanto tempo per riconoscere, nel nome della memoria ma anche nel nome dei più elementari sentimenti di umanità, il sacrificio di tanti italiani, vittime di pulizia etnica, colpevoli solo di essere italiani?
Cace: “C’è voluto tanto tempo a causa di una precisa scelta e per un chiaro disegno politico sorti da esigenze geopolitiche. Dopo la Seconda guerra mondiale si definì un nuovo assetto polarizzato su Usa e Urss. La Jugoslavia era uno Stato cuscinetto e svolgeva una funzione di argine, ma non mancavano i periodici contrasti con Stalin. Poi, in Italia il Partito comunista di Togliatti teneva in gran considerazione lo Stato jugoslavo e lo considerava un paradiso. Inoltre, l’egemonia del Pci nel mondo culturale riuscì a far sì che non si parlasse mai di quelle stragi. Questo in Italia, mentre all’estero delle stragi delle foibe se ne parlava eccome. L’Archivio del Museo storico di Roma ha recentemente acquisito una copia di un settimanale belga degli anni Quaranta in cui si descrivevano diffusamente, in un reportage, gli orrori avvenuti nel confine orientale d’Italia. Si sapeva, insomma, ma c’era da tirare su un Paese appena uscito da una guerra, c’erano da gestire gli esuli e tanti altri problemi da affrontare. Quando gli assetti politici cambiarono, con la caduta del Muro di Berlino, e scoppiò la guerra nei Balcani, le condizioni divennero favorevoli per un cambio di passo”.
Periodicamente vengono rinvenuti i resti di italiani uccisi dai partigiani titini nelle foibe, cavità carsiche molto profonde. Sono testimonianze che ancora pesano ma mostrano bene il genere di crimini di cui si sono macchiati gli jugoslavi.
“Sì, dopo questa damnatio memoriae, emerge chiaramente che le popolazioni giuliano-dalmate hanno pagato per tutti. Senza avere alcun riconoscimento dal governo italiano. Ora c’è la celebrazione importante, si dibatte, si discute, ma in un Paese civile non ci sarebbe stato bisogno di istituire una Giornata del Ricordo. Sarebbe stato normale ricordare i connazionali vittime di crimini efferati”.
Dopo l’ondata di violenza, ci fu qualcosa di peggiore: l’esodo. Gli italiani superstiti o accettavano di divenire jugoslavi e restavano in quelle terre o sceglievano di restare italiani ma dovevano andare in Italia. La sua famiglia ha vissuto direttamente questa situazione. Gli esuli si sono integrati in Italia o hanno avuto difficoltà? Stiamo parlando di italiani che erano tali doppiamente: per nascita, per sangue e per scelta, perché sceglievano l’Italia come patria.
“L’esodo è stato qualcosa di straziante, una condizione lacerante. Una cosa è scegliere di emigrare per cercare una vita nuova, cambiando tutto, altro è un esodo forzato: è la morte in vita. Una condizione che si porta dentro per sempre. Non credo di interpretare male, perché ho conosciuto molti esuli, ho parlato con loro e per loro era come vivere una condizione mortale. Un trauma che vivi giornalmente, che deriva dal perdere tutto, la propria casa, spesso i propri cari. Alcuni partivano con i vestiti che avevano addosso e basta, lasciando tutto. Perdevano la propria esistenza. Poi, c’è da dire che il popolo giuliano-dalmata stava bene: tutti avevano una propria casa, un pezzo di terra, erano liberi e autonomi. Non mancava nulla. Perdere tutto e vivere per dieci o vent’anni in un campo profughi, in promiscuità, significava sconvolgere le proprie vite. Eppure tutti questi esuli, la meglio Italia, si sono rimboccati le maniche e hanno ricostruito una propria vita, dignitosissima. E ricordiamo che sono venuti qui per continuare a sentirsi sempre italiani».
E l’accoglienza in Italia?
“Invece di essere accolti bene, spesso sono stati guardati con sospetto, a volte trattati male. Gli esuli di seconda generazione dicono che solo da grandi hanno ricostruito la propria storia, perché quando erano piccoli i genitori, a seconda del contesto, dicevano loro di non dire di provenire da Fiume o da Pola bensì da Trieste, altrimenti gli avrebbero detto: ‘Ma allora sei slavo, non sei italiano!’… Non si sapeva nulla ed era come se fosse stata una vergogna appartenere a quei luoghi. Le associazioni hanno tenuto accesa la fiamma del ricordo, altrimenti di tutta questa storia oggi non ci sarebbe più nulla”.
Da qualche settimana lei è stata nominata presidente dell’Associazione Nazionale Dalmata. Quali sono i programmi per rilanciare l’associazione?
“Una memoria condivisa è utopia, perciò il lavoro da fare è su una memoria accettata e questo lavoro passa da un dialogo culturale internazionale e da una progettazione capillare, con particolare attenzione alle scuole. È quanto emerso l’altro giorno, nel convegno online su ‘Giorno del Ricordo: memoria condivisa?’ in occasione delle celebrazioni per il 10 Febbraio, organizzato proprio dall’Associazione Nazionale Dalmata e dal Comitato 10 Febbraio. Oltre 2.000 i contatti nell’emissione live. È stata una riflessione a tutto tondo sul grado di metabolizzazione della storia del confine orientale da parte del nostro Paese: dalle Istituzioni alla scuola, dalla cultura ai mass media. A quasi vent’anni dall’istituzione della Legge per il Giorno del Ricordo è venuto il momento di fare il punto sullo stato delle cose in Italia e non soltanto celebrare, per quanto importante. Perché nonostante le graditissime dichiarazioni del presidente Sergio Mattarella, che ha parlato chiaramente di ‘pulizia etnica’, assistiamo purtroppo a rigurgiti di giustificazionismo e riduzionismo che animano una minoranza chiassosa e, purtroppo, ascoltata da una parte dei mass media. Ma, soprattutto, volevamo capire quale fosse la strada da intraprendere per far arrivare la nostra storia a una società multimediale e globale. Credo siano emersi molti spunti interessanti sui quali lavoreremo”.
Quali spunti?
“Credo che ora siamo a un grande punto di svolta. La prima generazione è quasi del tutto scomparsa. Anche per gli esuli di seconda generazione l’età avanza. A noi della terza generazione resta da raccogliere il testimone e curare l’aspetto storiografico. Il negazionismo delle foibe è stato un insuccesso: si tratta di eventi storici che non possono essere negati. Quindi puntare sulla storiografia. In questi giorni esce una risposta, scritta da storici, che ribatte punto su punto agli errori e alle discutibili interpretazioni scritte in un pamphlet pubblicato da un editore pur importante come Laterza. Un contro-fact checking che, con date, fonti, prove e documenti smonta quei lavori che non riportano la verità. I fatti si sanno, le prove ci sono. Non si può tornare indietro. Il rischio è che le cose non vengano dette o che vengano sminuite, fatte passare come generici episodi di violenza del ’900 e non vengano rappresentati nella maniera corretta. Allo stesso tempo, dobbiamo cambiare registro di comunicazione. Ben vengano i nuovi mezzi di comunicazione. Raccontare bene, seriamente, correttamente e cristallizzare le storie, le testimonianze, per farle conoscere al mondo. Più si lavora anche fuori, all’estero, meglio è. È il lavoro che come Associazione Nazionale Dalmata stiamo cominciando a fare”.
Avete progetti per la scuola?
“Abbiamo mandato una petizione all’Associazione Italiana Editori e al ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, nella quale segnaliamo che nei programmi scolastici non vengono trattati in maniera adeguata gli argomenti delle foibe e chiediamo che vengano inseriti correttamente e compiutamente nei libri e nei programmi. Sono alcuni passi necessari. Li stiamo facendo”.
* Chi volesse entrare in contatto con l’associazione ha, per il momento, due canali: su Facebook cliccare “Associazione nazionale dalmata” oppure scrivere al seguente indirizzo mail: associazionenazionaledalmata@gmail.it