Mi sforzo di meditare a freddo sulla pronuncia della Corte di Cassazione che ha annullato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze con cui Mauro Moretti, all’epoca amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e Rete Ferroviaria Italiana, era stato condannato a sette anni di reclusione per il disastro ferroviario di Viareggio, che il 29 giugno 2009 provocò la morte di 32 persone. Il processo dovrà ricominciare e i tempi si allungheranno. Anche se, con un beau geste che gli fa onore, ha rinunciato alla prescrizione, è probabile che, anche se dovesse venire condannato, Moretti non finirà in prigione per motivi di età; per gli altri dirigenti nella sua posizione invece è molto probabile che scatti la prescrizione, con relativa impunità. Il deragliamento del convoglio merci che trasportava Gpl e transitava per la stazione della città toscana rimarrà di fatto impunito. Lo stesso trattamento non è stato riservato a Denis Verdini, cui la sentenza definitiva della Cassazione ha aperto i cancelli del carcere per una serie di pur censurabili malversazioni, non per una strage, sia pure colposa.
La Cassazione avrà avuto le sue ragioni, anche se non posso fare a meno di notare come sempre più spesso le sue sentenze rispondano a logiche di carattere politico. Moretti è un tipico esponente di quella classe dirigente post-comunista di estrazione sociale modesta, per cui l’impegno politico-sindacale è servito come ascensore sociale. Piaceva alla sinistra, come ex esponente della Cgil, ma anche a una certa destra, per le sue vere o presunte capacità imprenditoriali e per la sua asprezza nelle relazioni sindacali. Gli viene attribuito il merito di avere eliminato il deficit delle Ferrovie, ma è facile far quadrare i conti alzando i prezzi in regime di semimonopolio nell’Alta Velocità e facendosi rimborsare dalle Regioni i costi del trasporto locale. Se i viareggini non si fossero opposti, il Pd avrebbe voluto candidarlo alle politiche del 2013 con la prospettiva di fargli fare da ministro dei Trasporti.
Può darsi che Moretti non conoscesse le condizioni in cui viaggiava quel maledetto convoglio merci la notte del 29 giugno 2009. Resta il fatto che su di lui grava la responsabilità morale di aver contribuito a sostituire, per logiche di bilancio, una concezione assoluta della prevenzione del rischio, che faceva delle Ferrovie italiane le più sicure del mondo, con una concezione probabilistica, di cui anche la tragedia di Viareggio è figlia. La drastica riduzione del personale, l’eliminazione del doppio macchinista, le economie sulla revisione del materiale rotabile, le stazioni locali non più presidiate non possono che comportare una riduzione della sicurezza. Non sta a me giudicare se questa responsabilità morale, condivisa per altro da tutta una classe politica, debba tradursi in una responsabilità giuridica. Mi limito a far presente che il principio del “non poteva non sapere” – al quale, da garantista, sono contrario – o viene applicato per tutti o non viene applicato per nessuno. Una giurisprudenza a targhe alterne rischia di divenire un ulteriore fattore di autodelegittimazione della Magistratura.