Non sono mai stato un “migliorista”, nell’accezione usuale del termine. Tutt’al più mi si potrà imputare di essere stato coautore, in un anno di grandi speranze, cui seguirono ben maggiori delusioni, di un libro intervista sul federalismo della Destra con l’allora deputato regionale toscano Riccardo Migliori. La notizia della scomparsa di Emanuele Macaluso però mi ha ugualmente addolorato, non per la sua pregressa militanza nel partito comunista, non perché abbia mai condiviso progetti politici o culturali con lui, ma perché l’unico giorno, o meglio l’unica sera in cui lo incontrai, tredici anni fa, ne ricavai l’impressione di una persona coerente e a suo modo onesta, come può esserlo un ex comunista.
Era il 28 agosto del 2007 e all’epoca conducevo insieme a Romano Battaglia per la Fondazione “La Versiliana”, del Comune di Pietrasanta, una serie di incontri dedicati ai Percorsi del Novecento. In genere evitavo gli incontri di carattere strettamente politico, preferendo quelli di un più ampio afflato storico, ma dietro le insistenze di Franco Servello accettai di buon grado l’organizzazione di un dibattito fra due personaggi che in fondo appartenevano già alla storia: lo stesso Servello, che aveva appena pubblicato il suo libro di ricordi 60 anni in Fiamma e Macaluso, che aveva da poco dato alle stampe il suo pamphlet Al capolinea. Controstoria del partito democratico. Né l’uno né l’altro dei due politici erano mai assurti ai vertici dei rispettivi partiti, il Msi poi divenuto Alleanza nazionale il primo, il Pci nelle sue successive evoluzioni il secondo. Avevano tuttavia occupato sempre posizioni di rilievo nei rispettivi apparati e solo di recente erano usciti dall’arena parlamentare. Macaluso, coerente con le posizioni assunte nella sua militanza comunista, era divenuto editorialista del “Riformista”, Servello aveva ottenuto l’incarico, più di prestigio che di potere, di presidente dell’assemblea nazionale di An dopo le dimissioni dell’ideatore di Alleanza Nazionale, il professor Domenico Fisichella.
Proprio la lunga permanenza nelle istituzioni aveva favorito la nascita di una reciproca stima fra i due politici, come capita spesso un po’ in tutte le assemblee elettive fra persone che, pur essendo molto distanti per convinzioni, scoprono nel lungo lavoro delle sedute e delle commissioni affinità elettive e un comune approccio ai problemi (così come, spesso, per motivi che poco hanno a che vedere con l’ideologia, possono maturare tenaci antipatie nei confronti dei colleghi di gruppo). In effetti, fra il “migliorista” Macaluso e il moderato Servello le affinità non mancavano, estrazione geografica a parte. Entrambi si erano fatti strada nei rispettivi partiti per la loro serietà, capacità di lavoro e dedizione all’idea, dedizione che nel secondo si era tradotta nel sacrificio di parte del patrimonio personale per salvare il Msi dalla bancarotta nei difficili anni Settanta. Era stato lo stesso Servello a farmi il nome di Macaluso, che si era prestato volentieri all’incontro; incontro che aveva avuto un precedente tre anni prima, quando Umberto Croppi, ancora direttore editoriale della Vallecchi, aveva promosso un pubblico confronto fra i due.
Prima del Caffè, Servello mi volle a pranzo al suo albergo, un bel quattro stelle sul lungomare di Marina di Pietrasanta, a pochi metri dalla Versiliana. Signore com’è, vi si era sistemato a sue spese, con la moglie, approfittando dell’incontro, cui teneva moltissimo, per un breve soggiorno a Fiumetto, cui credo tenesse altrettanto, anche perché gli consentiva di riunire un gruppo di amici. A tavola con lui trovai una persona effettivamente legata a uno dei più drammatici percorsi del Novecento: la figlia del generale Renzo Montagna, che era stato il capo della Polizia durante la Repubblica sociale a partire dall’ottobre 1944, quando aveva sostituito Eugenio Cerutti.
Dopo il pranzo rientrai a casa e passai a prendere in macchina l’onorevole Macaluso, presso l’albergo fra Fiumetto e Pietrasanta dove la Fondazione l’aveva ospitato. Pur essendo arrivato puntuale, lo trovai già pronto ad aspettarmi con la moglie. Indossava camicia e pantaloni blu, sotto un giubbotto in tinta, che conferivano un’aria sportiva a questo ottantenne ancora in forma, pieno di voglia di scrivere e, come dimostrava il suo libro, di polemizzare. Lo accompagnai alla Versiliana, dove arrivammo con largo anticipo e dove ci raggiunse subito dopo Servello, anche lui puntualissimo, virtù non sempre molto comune ai politici. L’incontro filò piacevole e i due interlocutori, piuttosto che additare la via della destra e della sinistra del futuro, come prevedeva il titolo della conversazione, si confrontarono civilmente facendo capire ai presenti quanto la “vecchia” politica avesse una sua dignità già allora in buona parte dimenticata.
Dopo l’incontro, con una scelta che mi dispiacque, Servello preferì rimanere a cena con alcuni ospiti di riguardo. Io, invece di raggiungerlo un’altra volta a tavola, mi sentii in dovere di tenere compagnia a Macaluso e signora al ristorante all’aperto del bagno Pietrasanta, per poi riaccompagnarli all’albergo. Non fu semplice dovere, perché conoscere dalle parole di un uomo dell’apparato qualcosa di più sulla storia del vecchio Pci costituiva per me una rara opportunità. La conversazione non mi deluse e, anche se ovviamente non mi svelò alcuno degli arcana regni del partito, mi aiutò a comprenderne meglio il clima psicologico e, se si vuole, morale. Macaluso, per esempio, mi spiegò che Togliatti, pur essendo ampiamente finanziato dall’oro di Mosca (per tacere di quello di Dongo) voleva che il partito, sia pure in parte, si autofinanziasse, per un fattore “etico”: credeva al ruolo pedagogico dell’impegno nelle varie feste dell’“Unità” o nella vendita militante del giornale. Ho pensato a lungo a queste parole, elaborando una mia teoria personale: le fortune politiche di un partito, ma anche la sua capacità di reggere ai contraccolpi della storia, si misurano dalla capacità di attrarre persone che si dedicano disinteressatamente alla militanza. Ho cominciato a intuire il declino di Alleanza Nazionale quando nelle varie kermesse di partito e feste tricolori i volontari cominciarono a essere sostituiti da hostess fornite da agenzie o da ristoratori di mestiere. Nessuno continua volentieri a cuocere salsicce fino all’una di notte se poi il deputato o l’assessore di turno, quando gli chiedi di trovare un lavoro al figlio, ti fa fare anticamera come a un noioso postulante…
A proposito di un ex segretario del “Migliore”, che poi avrebbe lasciato il partito e pubblicato alcuni saggi al vetriolo su di lui e sul suo rapporto con Gramsci, Macaluso mi fece notare che la sua uscita dal Pci era coincisa col mancato pagamento delle quote che ogni parlamentare corrispondeva al partito. Questo dettaglio un po’ pettegolo confermò comunque la mia intima convinzione che su ogni nostro comportamento pesano pulsioni idealistiche e considerazioni pratiche, in un miscuglio che non è sempre facile analizzare. Scoprii pure che la biografia di Macaluso uscita su Wikipedia conteneva una notizia falsa e capziosa. Non era vero che nel ’92 si fosse candidato alle regionali del Lazio e non fosse passato per pochi voti. Chi l’ha scritto, lamentava, aveva voluto farlo passare per una persona attaccata a tutti i costi alla poltrona, nel quadro di qualche regolamento di conti all’interno dell’ex classe dirigente comunista. Venendo però al nodo politico della questione, dal libro di Macaluso, fortemente critico nei confronti della genesi del Partito democratico, trovai conferma della mia opinione che, come l’America secondo Shaw è il solo paese passato dall’infanzia alla vecchiaia senza passare per la maturità, così il Pci è stato il solo partito passato dal comunismo al liberismo senza passare per la socialdemocrazia. Un’opinione che a distanza di tredici anni mi sembra trovare sempre più conforto dai fatti.
Macaluso è morto oggi 19 gennaio; Servello è morto sei anni prima, di Ferragosto. L’ultima volta che lo vidi, a Firenze, a presentare nel Salone dei Duecento di Palazzo Vecchio un volume rievocativo del cinquantennale dei fatti di Genova, era più combattivo e volitivo di prima, con quella voce tonante che caratterizzava i vecchi comizianti missini abituati a sovrastare nelle piazze le urla ostili dei contestatori. Nutro un sincero rimpianto per entrambi, anche se onestamente non saprei dire se più per merito loro o per demerito della classe politica di oggi.