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Tracciare a grandi linee un bilancio della parabola politica di Silvio Berlusconi è un compito arduo e articolato, più di quanto possano indurre a credere le rappresentazioni a tinte fosche e caricaturali dei suoi incalliti detrattori oppure gli elogi incondizionati di sostenitori talvolta propensi ad attribuirgli un’aura di sacralità.
Un focus sul profilo di uno dei protagonisti più longevi della storia repubblicana è l’oggetto del libro di Piero Ignazi “Il populista in doppiopetto. Berlusconi e la politica italiana”, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino.
Nella cornice delle trasformazioni che sin dagli albori degli anni ottanta investirono la società italiana (un po’ ottimisticamente definita “ribollente di vitalità”), il craxismo declinato come sintesi di un’anima rivolta alle lotte operaie del passato ed una aperta alle professioni dei piccoli e medi ceti produttivi emergenti intercettò solo in parte le istanze dei secondi, anche a causa della concorrenza della Lega nelle regioni del nord.
Agevolato dalla personalizzazione della competizione e dall’erosione del sistema dei partiti spazzati via dagli scandali di Tangentopoli, il Cavaliere elaborò una proposta intrisa di spinte rinnovatrici e ripiegamenti tradizionalisti, lasciando un’impronta più profonda rispetto a quella delle personalità politiche che lo avevano preceduto.
Un partito patrimonial-carismatico
Il sostegno alla candidatura a sindaco di Roma di Gianfranco Fini e il conseguente sdoganamento del Movimento Sociale Italiano rappresentarono il prologo della cosiddetta “discesa in campo”. Preparata più o meno sottotraccia, la novità colse di sorpresa – fra gli altri – Mario Segni, astro nascente destinato al ridimensionamento malgrado il consenso ottenuto per le battaglie referendarie sulla preferenza unica e per la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, all’interno di un contesto reso incandescente dalla polemica, destinata a diventare una costante, dello spauracchio del pericolo comunista.
Evitato accuratamente l’utilizzo del termine partito, il movimento politico di Forza Italia si dotò di una struttura atipica, affiancandosi da un lato a una rete preesistente di club che svolsero attività di mobilitazione e propaganda, dall’altro acquisendo tratti proprietari e patrimoniali. Questi ultimi sono rintracciabili nell’organizzazione di un centro propulsore (i fedelissimi di Publitalia) e nelle previsioni statutarie che assegnano ad un comitato ad hoc nominato dal Presidente il compito di valutare le domande degli aspiranti iscritti, significativamente denominati – in caso di ammissione – “soci”.
Osservatore delle dinamiche di un impero fondato sulla proposizione pubblicitaria del consumo di beni eretto a stile di vita, della contaminazione di informazione e spettacolo e dell’ingresso nell’arena della cosiddetta “politica del corpo”, Ignazi indica nelle capacità di conoscenza, padronanza d’uso – nettamente superiori a quelle degli avversari – e controllo dei mass-media i fattori decisivi, se non esclusivi, dell’affermazione del Cavaliere alle elezioni del 1994.
La fine dell’esperienza di governo determinata dalle frizioni con la Lega influì sulla trasformazione di una concezione d’ispirazione liberale e conservatrice in una di stampo populista e plebiscitario: dopo aver perso il potere, Berlusconi iniziò cioè a considerare illegittime soluzioni parlamentari diverse rispetto a quelle espresse dalle urne.
La narrazione secondo la quale si spogliò delle vesti dell’imprenditore di successo sacrificandosi per il bene del paese venne accompagnata dal rifiuto delle logiche della democrazia rappresentativa, dalla preferenza per un rapporto diretto e non mediato con il popolo, dall’identificazione dello Stato con un apparato burocratico oppressivo, nemico della laboriosità e del buon senso comuni, dall’utilizzo di un linguaggio e di toni contrari all’establishment che si fusero con l’emersione dell’antipolitica.
La scarsa sensibilità del leader per i problemi organizzativi, principale ostacolo alla formazione di una vera classe dirigente e al radicamento territoriale, costrinse i vertici del partito a formalizzare una nuova architettura che istituì la figura del coordinatore nazionale, ridimensionò il ruolo degli aderenti ai club e affidò la mobilitazione ai “promotori azzurri”, funzione svolta peraltro solo sulla carta. I poteri di nomina e cooptazione della maggior parte dei componenti degli organi collegiali rimasero prerogative del Presidente, che monopolizzò la scena al punto da rendere asfittico il dibattito interno.
Il reclutamento di personale più esperto, soprattutto ex democristiani e socialisti, consentì di accentuare la contrapposizione con gli eredi del comunismo, rivitalizzò la retorica dello spirito d’iniziativa e quella dell’operosità che, nella visione ottimistica di un futuro di libertà e benessere, furono gli slogan vincenti della campagna elettorale del 2001.
La propensione del Cavaliere alla mediazione non evitò divaricazioni con Alleanza Nazionale – esacerbate dalla disputa sul consenso dei ceti medio-alti e dei lavoratori autonomi – né il prevalere di un sentimento codificato da qualche osservatore con il termine “Forzaleghismo”, vale a dire l’insofferenza diffusa per le istituzioni, le regole e gli obblighi nei confronti della comunità, con particolare riferimento a quelli di natura fiscale.
La ricostruzione di vicende spesso convulse induce l’autore a soffermarsi sia sui pesanti strascichi derivanti dalla sconfitta sul filo di lana nella consultazione elettorale del 2006, sia sulla nascita del Popolo della Libertà quale scelta accelerata de facto da una tipica manifestazione di leadership carismatica, il “discorso del predellino”.
Una volta ridefinite le gerarchie e i rapporti di forza, le dinamiche della rottura del sodalizio con Fini vengono interpretate con la perorazione delle ragioni dell’epurato, pur precisando che egli non venne appoggiato in blocco dal vecchio partito e che la resa dei conti era stata procrastinata dai due contendenti per convenienze reciproche.
Al culmine di una drammatica congiuntura economica che ne minò il prestigio (già scalfito per le lunghe e note vicende giudiziarie) presso gli ambienti finanziari e i paesi partner dell’Unione Europea, Berlusconi si dimise da Presidente del Consiglio misurandosi con un declino che si materializzò sotto forma d’interdizione dal seggio senatoriale, a seguito dal passaggio in giudicato della sentenza per il reato di frode fiscale relativamente alla vicenda dei diritti televisivi di Mediaset.
La burrascosa archiviazione di un’epoca non ne sancì la fine né l’implosione di un soggetto politico che, almeno in una prima fase, venne sottratto dall’emarginazione anche grazie al contributo fattivo di Matteo Renzi.
Il populista in doppiopetto
Il taglio accademico del lavoro non dissipa, a modesto parere di chi scrive, alcuni interrogativi.
L’oscuramento delle differenze identitarie e organizzative tra Forza Italia e la Lega induce l’autore, che pure sottolinea il peso crescente assunto negli ultimi anni da tematiche quali la sicurezza e l’immigrazione nel processo di “destrizzazione” del movimento di Salvini, ad esasperare un aspetto a ben vedere effimero della personalità di Berlusconi, che si avvalse in maniera intermittente di un repertorio – quello del populismo inteso come stile comunicativo – a cui attinsero, a piene mani e con sfumature diverse, vari esponenti politici di primo piano dei due schieramenti.
L’ex direttore del Mulino assegna all’ascesa di Beppe Grillo e del Movimento Cinque Stelle una matrice comune a quella del partito del Cavaliere, che ha preso forma con l’idealizzazione del popolo nemico dei poteri forti e con l’estraneità alla politica tradizionale e ai suoi crismi.
L’alone di negatività associato al fenomeno differenzia la posizione del politologo romagnolo – attento, d’altro canto, a cogliere che la successiva demonizzazione dei grillini spinse Forza Italia verso l’omologazione al sistema e al professionismo politico tanto stigmatizzati in precedenza – rispetto a quella di altri studiosi che ne hanno invece rimarcato la complessa poliedricità, la capacità di depotenziare il cleavage destra/sinistra, di dare voce alle istanze di rinnovamento avanzate dai ceti penalizzati dalla globalizzazione e di consolidare un’identità autonoma.
Determinato a recuperare un ruolo primario che Forza Italia non avrebbe più svolto (malgrado i toni e gli atteggiamenti prudenti, per esempio di fronte alla crisi pandemica), Berlusconi rafforzò la collocazione atlantica a scapito di quella europea senza sconfessare l’amicizia con Putin, sostenne a lungo il governo Draghi e cercò di accreditare la propria candidatura a Presidente della Repubblica.
Incline più a modi seduttivi che autoritari, contrario all’idea di una successione nonostante l’inesorabile incedere degli anni, colse senza dubbio in ritardo i cambiamenti generazionali della politica e quelli introdotti da Internet nella comunicazione. Simbolo di una mutazione antropologica poggiante su una delle molteplici varianti dell’individualismo, diede rappresentanza a una forma di neo-conservatorismo moderato che promise grandi cambiamenti e alimentò speranze di modernizzazione, ma perse slancio a partire dalla crisi finanziaria del 2008.
Il lavoro di Ignazi è un contributo significativo alla riflessione e all’approfondimento di un dibattito, spesso avvelenato nei toni e nei contenuti da dosi massicce di irrazionalità, che ruota intorno a un dilemma di difficile decifrazione, ovvero se l’ex padrone di Mediaset abbia contributo al rinnovamento della politica – come è stato ripetuto da più parti nelle settimane successive alla sua morte – oppure se ne abbia più realisticamente annacquato la sostanza e ridotto la dimensione in piena sintonia con lo spirito del tempo.