![](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2021/01/81zz4PeJrOL-331x500.jpg)
6 gennaio
Campidoglio 1. Ma Trump non è Churchill, e nemmeno Mussolini
La diretta del solerte Mentana, scompaginando la normale programmazione sulla Sette, interrompe la trasmissione di una pellicola che da tempo volevo vedere e che stavo seguendo con interesse. Si tratta di Churchill, film dedicato a un frangente cruciale nella vita dello statista britannico, quando, memore del terribile scacco della spedizione dei Dardanelli, della quale era stato promotore durante la grande guerra, vorrebbe fermare lo sbarco in Normandia per evitare una nuova strage, o condividere la sorte dei soldati inglesi imbarcandosi con loro. La proiezione del film è stata interrotta senza nemmeno una scusa per lasciar spazio alle immagini di una pittoresca invasione del Campidoglio da parte di un’armata Brancaleone di sostenitori di Trump, che contestano il risultato elettorale. Siccome le immagini, dopo il primo sgomento, mi annoiano, mi sposto su Rai3, dove trasmettono uno sceneggiato tratto dai Miserabili di Victor Hugo. Me ne ritraggo dopo aver scoperto che (ormai è una moda) l’ispettore Javert è interpretato da un attore di colore, scelto chi sa perché a fare la parte del cattivo.
È il primo dispetto che mi fa questa folla di fanatici, forse infiltrati da agenti provocatori, che ovviamente fanno il gioco di chi dipinge come una massa di facinorosi i sostenitori di Trump, ovvero quasi la metà degli statunitensi. Il secondo è di suscitare la malcelata soddisfazione di quanti approfitteranno di questa grottesca invasione di campo per gridare al pericolo fascista non solo in America, ma in tutti i Paesi in cui sono attivi partiti e movimenti detti sovranisti. In realtà, fra Trump e Mussolini esiste una sostanziale differenza: Mussolini rinunciò il 28 ottobre 1922 a trasformare l’aula del Parlamento italiano in un bivacco di manipoli, ma prese Roma; Trump ha lasciato trasformare ai suoi seguaci più irresponsabili il Campidoglio in un bivacco di manipoli, ma non è riuscito a prendere Washington, né forse ha mai pensato di poterci riuscire.
p.s. A proposito della pellicola su Churchill interrotta, non posso fare a meno di ricordare una frase del grande statista, che mi fu riferita da Edgardo Sogno la prima e ultima volta che lo incontrai, all’alba del secolo, a un convegno sui manuali di storia: “La democrazia è l’arte di contare le teste invece di rompersele”. Purtroppo in questo gli inglesi sono più bravi degli statunitensi.
8 gennaio
Campidoglio 2. Se Trump era Stranamore lo era quando benediceva Giuseppi
Nei giornali e nelle trasmissioni televisive si sprecano le deprecazioni dell’assalto al Campidoglio, ed è giusto che sia così. L’oltraggio a un luogo simbolo della democrazia americana dev’essere condannato e, nelle sedi opportune, punito. Anche se non ha ordinato l’assalto, lo stesso Trump è il responsabile “oggettivo” di quanto accaduto, se non altro per non aver misurato le parole. Chi semina vento – recita un vecchio e sempre valido adagio – raccoglie tempesta.
Mi sorgono spontanee tuttavia almeno tre considerazioni, che nulla tolgono alla gravità dell’accaduto.
Trump è accusato di essere stato il primo presidente degli Stati Uniti a rifiutare il risultato elettorale, delegittimando l’avversario. Sotto un certo profilo è vero. Né Nixon, quando fu sconfitto di misura da Kennedy, nel 1963, con un opinabile conteggio di voti in qualche Stato, né Dole nel 2000, quando perse la corsa alla Casa Bianca dopo un laborioso contenzioso sui voti in Florida, si comportarono come lui.
In realtà però ci sono modi diversi di delegittimare un’elezione. Si può contestare aritmeticamente il risultato delle urne, o demolire moralmente il candidato risultato vincente. Nel novembre 2016 la classe dirigente del partito democratico scelse la seconda strada. Il presidente neoeletto non fece in tempo a insediarsi che si coniò il vocabolo fake news, per condannare le “bufale”, vere o presunte, alla base della sua campagna elettorale, che si inventò il Russiagate, che si minacciò l’empeachement. Non si chiese il riconteggio dei voti, perché c’era poco da riconteggiare. Si teorizzò il principio che i suffragi non vadano solo contati, ma pesati, nel senso che molti elettori di Trump, evidentemente considerati alla stregua di minus habentes, avevano votato senza cognizione di causa.
Seconda considerazione. L’invasione del Campidoglio, luogo sacro della democrazia statunitense, costituisce una macchia per i più accesi sostenitori di Trump, anche se non la si può definire, come qualcuno ha fatto, un tentativo di colpo di Stato: i golpe si fanno con l’appoggio o almeno con l’assenso delle Forze Armate, che negli Usa si sono sempre tenute fuori dalla politica e con il loro trenta per cento di militari afroamericani non simpatizzano certo per i suprematisti bianchi. Ma la violenza è, soprattutto dall’estate scorsa, un aspetto endemico della società statunitense, e non certo solo per colpa di Trump o dei più estremisti fra i suoi sostenitori. I vandalismi, i saccheggi, i bivacchi, le aggressioni, persino gli omicidi conseguenza del movimento black lives matter sono stati a lungo sottaciuti e spesso giustificati da quanti oggi condannano, giustamente, l’assalto al Campidoglio. Certo, altro (ma vallo a spiegare a chi subisce i danni) è rompere le vetrine di un supermercato o bruciare auto, altro è penetrare in Parlamento un giorno chiave per la democrazia. Ma abbattere negli Stati Uniti d’America la statua di chi ha scoperto l’America non è un’offesa almeno altrettanto grave a una nazione e a un intero continente (oltre, sia detto per inciso, che a noi italiani)?
Terza considerazione. Mi dà noia il tono saccente, da primi della classe che fanno la spia al maestro, con cui molti esponenti della sinistra sollecitano i politici italiani detti sovranisti a fare atto di pubblica ammenda per le simpatie manifestate in precedenza nei confronti di Trump. Non basta che Salvini e la Meloni condannino la violenza: debbono cospargersi il capo di cenere, dichiarare che Trump è il male assoluto, vergognarsi di avere tifato alle ultime elezioni, insieme a quasi la metà degli americani, per una specie di dottor Stranamore.
Che la personalità di Trump rivelasse risvolti oscuri è una verità; ma, se il presidente degli Usa era paranoico, lo era anche quando dava l’avallo al governo giallorosso del Giuseppi Bis o quando molti esponenti pentastellati ne apprezzavano il populismo. Nei vespasiani inglesi, ricordava Victor Hugo nei Miserabili, c’era la scritta: “Ricordatevi di abbottonare i pantaloni prima di uscire.”
11 gennaio
Campidoglio 3. E dinanzi al disastro americano, io rivaluto gli scrutatori di Bianco, rosso e verdone
L’accanimento non terapeutico nei confronti di Trump e dei suoi sostenitori (c’è persino chi vorrebbe radiare Giuliani dall’Ordine degli Avvocati), fa dimenticare l’interrogativo all’origine degli sciagurati fatti del 6 gennaio scorso: il risultato del voto è stato o no falsato? Personalmente credo che brogli ve ne siano stati, ma non è detto tali da ribaltare il risultato. Ma la verità difficilmente riusciremo ad attingerla. Non posso a questo proposito fare a meno di notare un’emblematica analogia fra le vicende che accompagnarono in Italia il referendum istituzionale e quelle che hanno accompagnato le ultime elezioni statunitensi. Anche il 2 giugno 1946 i primi risultati del voto, inizialmente favorevoli alla Repubblica, furono ribaltati dalle schede pervenute in un secondo tempo; anche allora la parte soccombente, i monarchici, non accettò i risultati finali, dando la colpa alle “calcolatrici di Romita”; anche allora scoppiarono tumulti e a Napoli, in via Medina, nove militanti filo-sabaudi furono falciati dai mitra della polizia, mentre davano l’assalto a una sezione del Pci che aveva esposto il tricolore senza lo stemma sabaudo, prima che fossero proclamati ufficialmente i risultati del referendum. Uno di loro aveva appena quattordici anni. A differenza di Trump, di cui era agli antipodi psicologicamente e ormonalmente, Re Umberto non istigò i seguaci alla rivolta, sciolse gli ufficiali dal giuramento di fedeltà e salutò l’Italia sorridente dal modesto aeroplano che l’avrebbe portato in esilio: Noblesse oblige. Fu mal ripagato, col divieto per sé e per i familiari di fare ritorno in Patria.
Non voglio arrischiarmi in giudizi sui veri o presunti brogli che accompagnarono il referendum istituzionale, né, lo ripeto, su quelli che Trump attribuisce alle elezioni statunitensi. Non posso fare a meno però di notare che il sistema elettorale americano è uno dei più cervellotici e caotici esistenti nei Paesi occidentali. Lasciamo da parte lo strano rito delle primarie, che paralizzano l’attività politica per quasi metà anno, pensate come sono per i tempi in cui ci si spostava da uno Stato all’altro in calesse e non in jet; lasciamo da parte la pittoresca varietà di sistemi di voto, dalle schede perforate alle urne tradizionali, ma in molti casi senza le garanzie di riservatezza delle nostre cabine (ho visto ai seggi divisori in plexiglass simili a quelli delle sale di scrittura delle caserme, dove gli elettori compilavano la scheda); ma a suscitare le maggiori perplessità è l’abuso del voto postale, concesso anche a chi non è impossibilitato a recarsi ai seggi. La segretezza di chi vota per corrispondenza non è sicura, per ovvi motivi, e le inefficienze o le malversazioni dei servizi postali sono suscettibili di alterare il risultato delle elezioni, come ha sostenuto, senza riuscire a dimostrarlo, Trump.
Di fronte a tutto questo non posso fare a meno di rivalutare il sistema italiano, più oneroso e laborioso, con gli scrutatori e i rappresentanti di lista indicati dai partiti, i permessi retribuiti e i riposi compensativi per chi lavora nei seggi, i seggi aperti di domenica (e un tempo anche il lunedì mattina) per consentire a tutti di votare direttamente e non per posta, le schede elettorali recapitate a domicilio a tutti gli aventi diritto e in passato i soldatini che montavano la guardia ai seggi col Garand e dormivano la notte sui materassini gonfiabili. E pazienza se il nostro sistema elettorale poteva lasciare spazio a episodi grotteschi come quello con cui si conclude il mitico “Bianco, rosso e verdone”, con i rappresentanti di lista che si contendono il voto di un’elettrice morta come gli Angeli e il Diavolo l’anima di Faust. La democrazia ha i suoi costi e una bella commedia all’italiana è sempre preferibile a una brutta tragedia americana come quella che si sta prospettando.
Chi scatenò colpevolmente la piazza nel 1915 fu Vittorio Emanuele III, seguendo i (cattivi) consigli di Sonnino e di amici (ammesso che il nostro Re potesse avere amici) massoni…