31 dicembre
Michelucci trent’anni dopo
Trent’anni fa moriva a Firenze Giovanni Michelucci. Le celebrazioni dell’anniversario mi sono parse piuttosto sotto tono, specie se confrontate con l’enorme prestigio di cui l’architetto pistoiese godé durante la sua lunga vita. Nei suoi confronti ho nutrito in giovinezza una grandissima stima. Vedevo in lui l’autore di quella che consideravo – e tuttora considero – la più bella delle stazioni italiane, quella stazione di Firenze Santa Maria Novella che, oltre a un capolavoro dell’architettura del Ventennio, è per me un luogo dell’anima, in cui riesco a sentirmi di casa persino oggi, nonostante le trasformazioni che la fanno sembrare sempre più una galleria commerciale.
Sull’uomo Michelucci, però, il mio giudizio è andato cambiando una decina di anni fa, quando Carlo Cresti, un grande storico dell’architettura che mi onorò della sua amicizia, mi spiegò i veri motivi del suo passaggio dalla facoltà di Architettura di Firenze alla facoltà di Ingegneria a Bologna. La vulgata ufficiosa vuole che Michelucci abbia sdegnosamente abbandonato la città del Giglio perché non furono approvati i suoi progetti di ricostruzione della parte di centro storico intorno al Ponte Vecchio che fu distrutta dalle mine tedesche nell’agosto del 1944. La realtà invece era più complessa. Michelucci, come quasi tutti gli architetti italiani fra le due guerre, era stato fascista, e fin qui nulla di male: un poeta può tenere le sue liriche nel cassetto, in attesa di tempi migliori, un architetto deve poter vedere i suoi progetti realizzati, per cui ha bisogno di scendere a compromessi col potere. Dopo la caduta del regime aveva cercato di “cancellare le tracce”, arrivando a dare la caccia alle fotografie che lo ritraevano accanto a esponenti di spicco del fascismo. E anche qui, non c’è nulla di nuovo. Il vero guaio fu che dopo l’11 agosto 1944 si fece nominare commissario presso la facoltà fiorentina di Architettura, presso cui insegnava, e pretese di epurarla. Questo ovviamente comportò la rivolta dei colleghi, che conoscevano benissimo i suoi compromessi del passato, e la nascita di una “incompatibilità ambientale”, come si direbbe oggi, che lo spinse a valicare l’Appennino.
Questa rivelazione mi spinse a rivedere anche il giudizio sull’artista. La Stazione di Firenze fu senza dubbio un capolavoro, ma un capolavoro non solo suo. Michelucci fu il capofila di un “gruppo toscano” di cui facevano parte altri futuri grandi architetti, come il giovane Italo Gamberini, la cui tesi di laurea fu alla base del progetto. E fra i protagonisti della magica stagione del razionalismo fiorentino non bisognerebbe mai dimenticare il sommo Pier Luigi Nervi, autore dello Stadio Berta, oggi Franchi, e della Manifattura Tabacchi, nonché di Raffaello Fagnoni, progettista di quel capolavoro dell’architettura castrense che è la Scuola di Guerra Aerea delle Cascine.
Con uno sguardo più sereno, prescindendo dal giudizio sul piano umano, penso che il vero capolavoro personale di Michelucci sia stata la chiesa di San Giovanni Battista, meglio nota come chiesa dell’Autostrada. In quest’opera realizzata fra il 1960 e il 1964, all’incrocio fra la Firenze-Mare e l’Autosole, nel territorio del Comune di Campi Bisenzio, Michelucci seppe trasfondere lo spirito del cattolicesimo conciliare, con le sue generose utopie. La disegnò a forma di tenda, come un luogo d’incontro – spiegò – fra fedi e culture, quasi un pendant in pietra ai Colloqui del Mediterraneo che il “sindaco santo” La Pira organizzava in quegli anni a Palazzo Vecchio. Sarebbe dovuta servire, realizzata com’era in uno snodo nevralgico dell’Autosole, per consentire agli automobilisti di assistere alle funzioni religiose o magari fermarsi per una preghiera durante il viaggio. Oggi i luoghi di culto sono disertati anche da chi sta in città e la chiesa dell’Autostrada resta la testimonianza di una grande illusione: qualche anno fa andava a pezzi, caduta in disuso com’era. Resta però, col Santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, uno dei rari esempi di architettura religiosa contemporanea che non faccia dubitare dell’esistenza di Dio. Quel Dio in cui Michelucci, a modo suo, non smise mai di credere, persino quando datava le sue lettere con la sola indicazione dell’era fascista.
1◦ gennaio
Pfizer 1. Ichino e l’obbligo vaccinale
È un’inquietante caratteristica degli ex comunisti, anche quando paiono integralmente convertiti ai principi liberistici, conservare quell’atteggiamento illiberale che li caratterizzava quando frequentavano le sezioni del Pci. È innegabile che una mentalità comunista sia sopravvissuta al 9 novembre 1989, così come una certa mentalità fascista sopravvisse al 25 luglio e al 25 aprile.
Prendiamo il caso di Pietro Ichino, stimato giuslavorista, ammiratore di don Milani, militante del Pci di cui è stato deputato, prima di passare al Pd con una breve parentesi in Scelta Civica. Questo ex sindacalista della Cgil si è distinto da tempo nella critica agli eccessi garantisti della nostra legislazione in materia di diritto del lavoro (una critica che gli è costata persino serie minacce di morte; e qui è naturale essere solidali con lui). La sua ultima proposta sconvolge però per il suo carattere illiberale. Ha sostenuto, infatti, il diritto del datore di lavoro a licenziare il dipendente che non accetti di vaccinarsi. Il provvedimento, secondo la sua interpretazione, sarebbe giustificato dall’articolo 2087 del Codice Civile, che obbliga il datore di lavoro a mettere in atto tutte le misure possibili per garantire la salute dei dipendenti.
La gravità della proposta è evidente, visto che introduce un criterio civilistico in una materia che tange il più elementare diritto costituzionale, ovvero il diritto del cittadino a disporre del proprio corpo. L’obbligo di vaccinarsi è qualcosa di ben diverso dal divieto di fumare. Come è noto, l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che eventuali trattamenti sanitari obbligatori possano essere imposti solo per “disposizione di legge”, non certo per volontà di un datore di lavoro o magari per contrattazione sindacale.
Per fortuna, la sua proposta ha incontrato opposizioni e dissensi presso qualificati studiosi di diritto, memori dell’aurea massima latina secondo cui lex superior derogat inferiori. L’Italia per fortuna non è (ancora) la Cina, in cui il partito comunista continua a governare.
2 gennaio
Pfizer 2. Montagnier non è l’ultimo arrivato
Il dibattito fra no o pro vax rischia di trasformarsi in una nuova guerra di religione, magari fra atei. I medici che manifestano le loro perplessità sul vaccino rischiano la radiazione, ma chiunque osi invocare dinanzi al prodotto uscito dai laboratori della Pfizer il principio di precauzione rischia la gogna mediatica. Eppure qualche perplessità dovrebbe essere lecita se prima di farci siringare siamo costretti a sottoscrivere un modulo per il consenso informato che al punto 10 ammette l’impossibilità di “prevedere danni a lunga distanza”. È vero che a leggere i “bugiardini” dei medicinali non dovremmo prendere nemmeno l’aspirina, ma in questo lavarsene le mani è lecito scorgere qualcosa d’inquietante. E qualcosa d’inquietante c’è anche nell’intervista rilasciata dal Premio Nobel Luc Montagnier all’emittente “France Soir”, disponibile su you tube (https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=08CAfBz5qws&feature=emb_title). Montagnier non è un no-vax e nemmeno un negazionista, come usa dire oggi; è però un uomo che crede nella libertà della ricerca e denuncia il clima di “terreur scientiphique” (io tradurrei “terrorismo scientifico”) che rischia di costituire una fra le più gravi conseguenze della pandemia. Non nega l’efficacia dei vaccini, ma esprime le sue preoccupazioni per un vaccino realizzato – e oggi imposto – troppo in fretta. Purtroppo l’intervista è disponibile solo nella versione originale, senza sottotitoli in italiano, ma Montagnier parla un francese molto chiaro. Come, del resto, sono chiare le sue idee.
Naturalmente, anche lui può sbagliare. Può darsi che il vaccino uscito dai laboratori della Pfizer sia innocuo e che possa recare benefici superiori alle incognite: Dio lo voglia! Non lo escludo, non essendo un religionnaire, per dirla con Pareto, come tanti suoi detrattori. Ma per il momento preferisco sbagliare con un Premio Nobel che aver ragione con chi vorrebbe far portare un distintivo, quasi una lettera scarlatta, al personale sanitario che non si è fatto vaccinare.
3 gennaio
Netflix 1. Una regina “abbronzata”
Credevo di non dovermi meravigliare più di niente dopo un Passepartout cinese nel Giro del mondo in ottanta giorni prodotto nel 2004 dalla Disney e la Sirenetta interpretata da un’attrice afroamericana, sempre in una produzione Disney (povero Walt, perfetto archetipo del Wap, chi sa cosa penserebbe). E invece l’antico adagio latino nihil admirari, “non stupirsi di nulla”, ha ricevuto un’ulteriore conferma. Me l’ha dato una delle ultime produzioni diffuse dalla piattaforma Netflix, cui in famiglia, più che altro per migliorare il nostro inglese, siamo (ahimè) abbonati.
“Bridgerton”, la Downton Abbey a luci rosse e retrodatata che la rete televisiva ha mandato in onda a partire da questo Natale, costituisce un falso storico tanto evidente da apparire sfacciato. L’autrice, la sceneggiatrice e produttrice afroamericana Shonda Rhimes, non solo ha fatto interpretare il ruolo della regina Carlotta d’Inghilterra da un’attrice di colore, ma ha affidato ruoli chiave fra i protagonisti ad altri attori “abbronzati”. Passi per la regina Carlotta, cui un’azzardata ipotesi storiografica attribuisce antenati africani o “vandali”. In questo caso l’autrice potrebbe essersi limitata a “sollecitare dolcemente i testi”, come diceva Renan. Ma far credere che nei primi decenni dell’Ottocento alla corte di una nazione che ancora tollerava la schiavitù nelle colonie un duca potesse essere di colore è un’evidente operazione ideologica finalizzata alla colonizzazione dell’immaginario collettivo. Dietro questa ricostruzione artificiale del passato si nasconde il desiderio di costruire arbitrariamente il futuro di un Occidente meticcio. La “grande sostituzione” è in corso, e viaggia anche sulle piattaforme digitali.
4 gennaio
Code alle casse e distanziamenti: perché chiedere ai clienti l’impossibile?
Le code davanti ai supermercati sono finite: la gente ha capito che le derrate alimentari non scarseggiano e che nel ricco (per ora) Occidente è più facile morire di indigestione che di fame. Ma, forse proprio per questo, si sono allungate le code alle casse, non tanto perché entri troppa gente, ma perché la maggior parte di esse è chiusa. Sono aperte le casse del cosiddetto “presto spesa”, in cui il cliente deve arrivare dopo essersi fatto il conto da solo, salvo vedersi soggetto alla procedura umiliante della “ribattuta”. La cosa è già di per sé spiacevole: un tempo si andava al supermercato per risparmiare soldi e tempo, evitando le singole code nelle botteghe, dove casalinghe non disperate ma disperanti perdevano e facevano perdere un quarto d’ora per acquistare mezzo chilo di pane, fra “mezzelune”, “frustine” e “cazzottini” (a Firenze si dice proprio così).
Dopo l’euro i prezzi si sono livellati verso l’alto e con due terzi delle casse chiuse il cliente perde lo stesso tempo, considerate anche le code alla gastronomia e la tortura di aprire i sacchetti e i guanti per la verdura da comprare sfusa. Però il problema è anche un altro: siccome la legge proibisce gli assembramenti, la direzione del supermercato ha ingaggiato degli “ammonitori” che invitano i clienti a distanziarsi quando sono in coda. Ma gli spazi sono quelli che sono, pensati in era ante-covid: mantenere la giusta distanza è manifestamente impossibile, a meno che non venga distribuito il “numerino” anche alle casse. L’unica alternativa potrebbe essere invece di arruolare personale esterno per chiedere alla clientela l’impossibile, assumere come avventizi i tanti camerieri disoccupati prodotti dalla zona rossa e metterli alle casse. Ma forse costerebbero di più, forse non vorrebbero farsi assumere, preferendo rimanere in cassa integrazione per le festività, in attesa di “ristori” e redditi di cittadinanza. Anche certi piccoli disagi sono uno specchio della crisi dell’Italia.
5 gennaio
Netflix 2. San Patrignano. Però Muccioli era un Uomo
Di levatura ben diversa da Bridgerton l’altro prodotto fornito in questi giorni dalla piattaforma Netflix: il documentario su San Patrignano. Qualcuno ha osservato che, più che sulla celebre comunità di recupero per tossicodipendenti nei pressi di Rimini, è uno sceneggiato sul suo fondatore Muccioli, ma in questo non scorgo nulla di scandaloso. La sintassi dei docu-film e degli sceneggiati richiede la presenza di un protagonista la cui figura sia coinvolgente, meglio ancora se controversa. La qualità narrativa, il montaggio delle interviste, il corredo di immagini sono di altissimo livello e, nonostante la durata forse eccessiva dell’intera serie, l’attenzione dell’ascoltatore non cala quasi mai.
Il documentario può essere accusato di scarsa obiettività e in parte è vero, perché, non è dato sapere se per scelta ideologica o per esigenze di audience, è stata prestata un’attenzione esorbitante agli aspetti dark della vita in comunità e della personalità del suo fondatore. È difficile però negargli il merito di avere riportato l’attenzione non tanto sulla figura di Muccioli, a un quarto di secolo dalla scomparsa, ma sul problema delle tossicodipendenze, sempre meno al centro del dibattito politico. Dispiace, certo, l’eccessivo spazio concesso a figure piuttosto ambigue e a tratti squallide di collaboratori di Muccioli “pentiti” e il fatto che non sia stata intervistata la principale benefattrice vivente della comunità, Letizia Moratti (le è stato richiesto un colloquio proprio nei giorni cruciali della scalata di Banca Intesa alla Ubi, di cui era presidente, senza darle la possibilità di differirlo). Della comunità oggi, del fatto che la struttura vada avanti anche senza la guida del suo fondatore e di suo figlio, non si parla quasi per nulla, nonostante che San Patrignano abbia spalancato le porte alla troupe diretta da Cosima Spender. Di pessimo gusto sono infine gli accenni alla possibile morte per Aids di Muccioli e alla sua ventilata omosessualità.
Al termine della “docu-serie” lo spettatore non prevenuto matura comunque alcune opinioni sulla vicenda. Il primo è che San Patrignano, sviluppatasi negli anni Ottanta, dovette il suo rapidissimo sviluppo non solo alla personalità carismatica (e se vogliamo per certi aspetti istrionica) del fondatore, ma anche al fatto di colmare un vuoto e di rispondere a un’esigenza diffusa della società italiana. La piaga della droga, ipocritamente sottaciuta dai governi e favorita da una legislazione permissiva, stava mietendo vittime e gettava nella disperazione molti genitori abbandonati a se stessi dallo Stato, un po’ come è avvenuto ai familiari degli psicopatici in seguito alla cosiddetta legge Basaglia. Dopo le follie libertarie del ’68 e del ’77 cominciava a maturare nella società italiana un’esigenza di ritorno all’ordine, di cui anche Muccioli seppe farsi interprete. I metodi spicci con cui affrontava le crisi d’astinenza e i tentativi di fuga degli ospiti della comunità erano considerati il male minore e in effetti lo erano. Fra i politici, gli uomini di spettacolo e larga parte della stampa era ancora diffuso un senso comune che faceva ritenere le sberle e persino la reclusione uno scotto accettabile al recupero di un “tossico”, ovviamente solo nei casi di necessità. Inoltre, come appare evidente dagli esiti del primo processo, che vide Muccioli condannato in primo grado e assolto in appello con sentenza confermata in Cassazione, i gradi più alti, non ancora politicizzati, della Magistratura si astenevano dal perseguire comportamenti finalizzati al recupero di personalità disturbate e pericolose per la società come per se stesse. I “pretori d’assalto” non erano ancora divenuti “ermellini”.
Dieci anni dopo la situazione era profondamente cambiata, all’interno della comunità e anche al di fuori di essa. San Patrignano era cresciuta molto, forse troppo rapidamente e Muccioli, costretto a delegare a collaboratori che erano a loro volta ex tossicodipendenti, incontrava serie difficoltà a controllarne sempre le dinamiche interne. Ma soprattutto al clima di riflusso proprio degli anni Ottanta si era sostituita la fase di aspre contrapposizioni ideologiche seguita alla fine della prima repubblica. Questo clima per San Patrignano, che aveva fra i suoi principali sostenitori e finanziatori i coniugi Moratti, con Letizia presidente Rai in quota Polo delle Libertà, si tradusse in un accanimento giudiziario e giornalistico senza precedenti. Muccioli divenne, agli occhi di parte della sinistra, “Mucciolini”, mentre riprendevano quota, dopo il varo della legge Jervolino-Vassallo, le posizioni antiproibizionistiche. Nonostante questo non gli mancò mai la stima e in certi casi la venerazione della stragrande maggioranza dei suoi ospiti e dei loro familiari. Ma qualcosa nel microcosmo di San Patrignano e nel macrocosmo della società italiana si era incrinato. La docu-serie di Netflix ha il merito di farcelo capire, sin troppo impietosamente, ma anche di farci capire che, nonostante tutto, Muccioli è stato un grande.
Mi dispiacciono, invece, certe prese di posizione degli attuali responsabili della comunità, che criticano la trasmissione perché parla più di Muccioli che di San Patrignano. Mi sembrano – ma forse sbaglio – preoccupati più per il danno d’immagine (come va di moda dire oggi) derivante dalla docu-serie che per l’oltraggio alla memoria del fondatore, come se fosse possibile scindere Muccioli dalla sua creatura. Sarebbe come se i francescani prendessero le distanze da San Francesco, o i gesuiti da Sant’Ignazio. San Patrignano esiste grazie all’uomo che le dedicò la sua vita, mal ricompensato da persone che a lui dovevano tutto e che lo tradirono nemmeno per trenta denari. Certo, Muccioli non era un santo, anche se forse in qualche momento sarà stato convinto di esserlo. Però era un Uomo. E ci sono frangenti nella storia in cui ci può essere bisogno più di Uomini con la U maiuscola che di Santi.
Ad averne di persone come Muccioli che si danno da fare per combattere contro la droga. Che è una piaga sempre più diffusa. Netflix è liberalprogressista, perciò in nome di questa perversa ideologia non può che essere per una liberalizzazione della droga, e di conseguenza denigra la figura di uno come Muccioli. Almeno cosi io la vedo.