10 dicembre
La giustizia e i cani
Parlato con un capomastro, fac totum del condominio, venuto in casa nostra per un problema d’infiltrazioni d’acqua dal lastrico solare. È un meridionale onesto, laborioso, educato; uno di quegli uomini venuti in Toscana negli anni Sessanta e Settanta, che sono riusciti ad assicurarsi una posizione grazie alla correttezza nel lavoro. Il mio bassotto, che all’inizio gli abbaia, dopo gli scondinzola, gli fornisce l’occasione per parlare del suo amore per i cani. Ha una casa in campagna, isolata, al pian terreno, difficilmente difendibile e per questo presa di mira dai ladri. Non crede come me negli antifurto elettronici: il suo antifurto sono i cani. Uno di loro era uno splendido labrador: due volte tentarono di avvelenarlo; la prima riuscì a salvarlo facendogli ingurgitare in tempo del sale grosso, la seconda non ce la fece. Ora ha due splendidi lupi della Cecoslovacchia, a pelo lungo (pare i più temibili), che la notte tiene saggiamente in casa. Una sera era uscito con la famiglia e due ladri erano penetrati dalla finestra. La reazione dei lupi fu immediata e i due malviventi, terrorizzati, non trovarono di meglio che chiudersi in un armadio, come nei vaudevilles della Belle Epoque gli amanti sorpresi da un repentino rientro in casa del marito.
Quando tornò e li scovò nell’armadio, la prima cosa che gli dissero fu: “Se i cani ci mordono, ti denunciamo”. L. li lasciò chiusi nell’armadio, in preda al terrore, mentre i cani abbaiavano furiosamente, finché non arrivarono i Carabinieri, che li portarono via.
Un lieto fine, allora? Non direi, perché in quella intimidazione c’è tutta la tragedia dell’Italia: i ladri che minacciano di denunciare chi stavano derubando, e magari non senza fondamento, vista una giurisprudenza che spesso è più dalla parte dei delinquenti che dei galantuomini. Ho sempre dubitato del fatto che l’insegnamento delle norme giuridiche – per esempio sotto forma di educazione civica – allontani dal crimine. I ragazzi imparano subito i loro diritti, scordano presto i doveri. Conoscere il bene non significa essere disposti a farlo: l’intellettualismo etico che Nietzsche rinfacciava a Socrate è una grande sciocchezza. Il peggior delinquente è quello che conosce a memoria il Codice, perché sarà bravissimo a eluderlo. In questo i lupi della Cecoslovacchia sono molto più saggi degli umani.
11 dicembre
Solidarietà per Del Turco? Certo, ma non dimentichiamo Squitieri
Mobilitazione di coscienze per Ottaviano Del Turco, ex esponente di spicco del Psi, di cui fu segretario dopo l’eliminazione politica di Craxi, e poi del Pd, nonché presidente della Regione Abruzzo. Gli è stato revocato il vitalizio in seguito a una sentenza passata in giudicato che lo condanna a più di tre anni di reclusione per “induzione indebita”: uno dei tanti reati giurisprudenziali che ormai rendono agevole criminalizzare pratiche diffuse fra i politici fin dai tempi dell’antica Roma. La revoca, che lo lascia sul lastrico, ultrasettantenne e malato, è l’applicazione, barbara, di una legge barbara, oltre tutto retroattiva, frutto di quel delirio antipolitico su cui il Movimento 5 Stelle ha costruito le sue fortune. Oltre tutto non mi risulta che a un comune pensionato vengano revocati o ridotti gli assegni per una condanna penale, ed è bene che sia così (tutt’al più una parte della pensione potrebbe essere trattenuta per risarcire le eventuali parti lese).
Non posso che associarmi di conseguenza alle manifestazioni di solidarietà con Del Turco, non perché mi rimanga simpatico, come del resto non mi sono simpatici gli altri comprimari di un “craxismo senza Craxi”, ma perché mi è cara la giustizia. Ritengo onesta, però, una considerazione: mi sarebbe piaciuto che un’analoga mobilitazione vi fosse stata quattro anni fa a favore di Salvatore Squitieri, cui furono sottratti sia il vitalizio, sia l’assistenza sanitaria integrativa prevista per gli ex parlamentari, in seguito a una sentenza che non riguardava la politica, ma il suo lavoro giovanile come bancario: impiegato del Banco di Napoli, aveva cambiato un assegno poi risultato falso, nel lontano 1966, un infortunio professionale che gli costò una condanna a un anno di carcere, di cui sei mesi scontati. Quando rimase senza assistenza sanitaria integrativa, aveva 78 anni, più o meno l’età di Del Turco oggi, ed era afflitto da un tumore. “La chemio costa, vogliono ammazzarmi!” fu una delle sue dichiarazioni. Enfasi a parte, forse aveva ragione: volevano ammazzare il regista di “Claretta”, l’ex senatore di Alleanza Nazionale, l’avvocato di tutte le cause perse, oltre che un uomo dal carattere obiettivamente non facile.
Ho già ricordato tutto questo nel “coccodrillo” che scrissi su di lui proprio su Barbadillo, il 20 febbraio 2017, e non voglio ripetermi. Spero solo che il caso suo e anche quello di Del Turco servano non a ottenere eccezioni, ma a condurre alla modifica di una legge iniqua, che oltre tutto costituisce per tutti un precedente pericoloso. Si incomincia col revocare o tagliare i vitalizi degli onorevoli, poi, magari con l’alibi dell’equità sociale, si finisce col tagliare le pensioni di anzianità.
12 dicembre
Code per l’identità digitale: più che a Conte credo a Laocoonte
Noto un’insolita coda dinanzi all’ufficio postale vicino casa. Dico dinanzi, non dentro, perché ormai l’ingresso agli uffici è limitato a un ristretto numero di clienti e gli altri sono costretti ad aspettare fuori. Fra loro ci sono anziani e invalidi: invece che di chinavirus rischiano di morire di bronchite. A nessuno è venuto in mente di allestire almeno un gazebo di fronte all’ufficio, nello slargo antistante; eppure le poste, anche se formalmente privatizzate, sarebbero un servizio pubblico. Tremo al pensiero di quello che succederà in caso di pioggia e di gelo: se a Bologna, come recita un vecchio adagio, il freddo si vede, perché nevica, a Firenze il freddo si sente, anche se di rado cadono i fiocchi. Scopro più tardi che le code non sono limitate a questo ufficio, ma diffuse quasi ovunque, e leggendo i giornali ne capisco il motivo.
È negli uffici postali che si attiva il cosiddetto Spid (Sistema pubblico di identità digitale), che presto diverrà necessario per accedere ai siti della pubblica amministrazione e che soprattutto è indispensabile per ottenere il bonus di un massimo 150 euro sui pagamenti effettuati con bancomat o carta di credito. È comprensibile che in tempi di crisi siano in molti a fare la coda per mettersi in condizione di ottenere questa non lauta mancia, a costo di beccarsi gli uni con gli altri come i capponi di Renzo. L’impiegato non è in grado di servire tutti quelli che hanno preso il “numerino” e chi magari deve solo ritirare una raccomandata rimane fuori e protesta.
Io non ho studiato ragioneria, ma l’Eneide sì. Per questo più di Conte mi fido di Laocoonte e del suo “timeo Danaos ed dona ferentes”: “io temo i greci anche se portan doni”. Oltre a chilometriche code, l’acquisizione di un modesto bonus ci obbliga infatti a comunicare allo Stato le banche in cui abbiamo depositi e i numeri di conti correnti. Lo Spid è insomma una sorta di Cavallo di Troia nella nostra privacy. È vero che il segreto bancario è stato abolito ormai da tempo e può entrare nei nostri conti non solo un magistrato, ma un appuntato della Finanza, ma perché in cambio della promessa di qualche spicciolo contribuire ulteriormente alla diffusione dei nostri dati personali? Perché condividere l’ingenuità di Renzo, che di fronte ai “birri” e al notaio criminale rivela tratto in inganno la sua identità (non digitale)?
Oltre tutto, temo che col bonus sui versamenti con strumenti digitali succederà quello che è successo con i distributori self service. In un primo tempo il prezzo di partenza era il “servito”, all’epoca la regola, e chi si faceva le veci del benzinaio era invogliato da uno sconto. Oggi il prezzo di base è sul self service, e chi vuole essere servito come un tempo deve pagare una maggiorazione. Ora si promette un bonus a chi si serve di bancomat o di carte di credito, domani si tasseranno i prelievi di contante, e il cerchio sarà chiuso.
13 dicembre
Un fondo che non sfonda
Magistrale articolo di fondo di Ernesto Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera”. È intitolato “Quando il governo centrale è debole” e demolisce l’odierna maggioranza di governo con osservazioni di una limpida ferocia. In altri tempi un editoriale di questo genere sarebbe bastato a fare aprire una crisi di governo. Oggi tutto va avanti come prima, sia pure fra i consueti mugugni, per altro per motivi precisati dallo stesso autore: la maggior parte dei deputati pentastellati, che sorreggono l’odierna maggioranza, se si andasse a elezioni anticipate non sarebbero rieletti e dovrebbero cercarsi un lavoro; ma “lavorare stanca”. Paradossalmente, se il tanto vituperato vitalizio fosse erogato, come una volta, a prescindere dall’età, sarebbero più fedeli al loro mandato smettendo di sostenere una politica in cui non credono.
Del resto è finito il tempo in cui la “mazzetta” dei quotidiani era la prima lettura dei politici e Antonio Bisaglia, deputato democristiano di lungo corso, prima di una fine tragica e misteriosa, inviava per Natale la “sua” grappa a tutti i notisti politici, compreso Enzo Erra, del “Roma”, che lo raccontava con una punta di orgoglio agli amici. Oggi un post su istagram della Ferragni fa più opinione di un fondo di Della Loggia, che è il miglior politologo italiano anche perché non è un politologo ma uno storico, e non si può capire la politica senza conoscere la storia.
14 dicembre
Chi vuole il processo al cadavere di papa Wojtyla?
Dall’agenzia di stampa Aci apprendo che ben 1700 docenti universitari hanno sottoscritto un “Appello alla verità e al rispetto in memoria di Giovanni Paolo II”. La petizione è una risposta alla campagna scandalistica occasionata dal cosiddetto rapporto McCarrick, il porporato risultato responsabile di gravi abusi sessuali e per questo ridotto allo stato laicale sotto il pontificato di papa Bergoglio. Dal rapporto, consultabile in originale sul sito http://www.vatican.va/resources/resources_rapporto-card-mccarrick_20201110_it.pdf, risulterebbe che papa Wojtyla avrebbe sottovalutato durante il suo pontificato gli indizi a carico del cardinale, minimizzazione per altro legata all’assenza di testimonianze certe in materia. Un’analoga sottovalutazione può essere però imputata anche a papa Francesco, qualora si intendesse applicare senza discriminazioni l’opinabile criterio del “non poteva non sapere”. Il problema della pedofilia e dell’omosessualità nella Chiesa è senz’altro molto grave, anche e forse soprattutto in questi anni, in cui la scomparsa dei seminari minori e la netta prevalenza delle vocazioni mature dovrebbero invece allontanare certe tentazioni puberali, alla Peyrefitte. Ma condannare un porporato, o anche un semplice laico o chierico, sulla base di singole dichiarazioni (unus testis, nullus testis, dicevano gli antichi romani), sarebbe stato quanto meno avventato. La dolorosa vicenda del cardinal Pell, assolto all’unanimità dalla Suprema Corte australiana dopo essere stato condannato in primo grado e aver subito un doloroso periodo di detenzione, dovrebbe insegnare qualcosa. Non bisogna confondere l’omertà con la prudenza.
La strumentalità delle accuse a San Giovanni Paolo II risulta evidente anche dal contesto storico in cui esse purtroppo s’inseriscono. Da un lato la Chiesa cattolica in Polonia, dall’altro l’eredità morale di Giovanni Paolo II sono oggetto di un attacco concentrico, enfatizzato dalla grande stampa laicista e purtroppo anche da frange della stessa pubblicistica cattolica.
Da vari mesi in Polonia, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha modificato in senso restrittivo la legge sull’aborto, si sono moltiplicati gli atti di vandalismo contro le chiese, le interruzioni di funzioni religiose, le offese ai luoghi sacri. È stato persino organizzata una specie di marcia su Czestochowa, la città del monastero della Madonna Nera di Jasna Góra, il simbolo della fede cristiana e della nazione polacca.
Non si tratta di innocue manifestazioni “delle donne”, ma di una strategia orchestrata dall’estrema sinistra per delegittimare il governo legittimamente eletto e le gerarchie ecclesiastiche, nell’ambito di una strisciante guerra di religione (e non solo di religione): “to jest wojna” (“questa è guerra”) è stato lo slogan dei manifestanti.
Purtroppo l’attacco alla Chiesa polacca procede di pari passo con l’aggressione alla memoria storica di papa Wojtyla, cui i nemici del cattolicesimo (ma anche, spiace dirlo, molti clerico-marxisti) non hanno perdonato e non perdoneranno mai due presunte colpe: avere liquidato la cosiddetta teologia della liberazione in America latina, arginando la destabilizzazione del subcontinente, e avere inferto un colpo decisivo al comunismo sovietico. Quelli che sotto il pontificato di papa Ratzinger erano stati semplici mugugni per la precoce canonizzazione di papa Wojtyla sembrano destinati a trasformarsi in una delegittimazione della sua eredità religiosa ed etico-politica. Non si arriverà, si spera, a una riedizione in chiave mediatica del processo al cadavere di papa Formoso, ma per la Chiesa cattolica potrebbero purtroppo tornare ad affacciarsi anni molto bui.
p.s. l’appello è disponibile sul sito https://ekai.pl/apel-ludzi-nauki-o-prawde-i-szacunek-w-pamieci-o-janie-pawle-ii, in polacco ma con la possibilità della traduzione automatica in italiano.
15 dicembre
La sanità di base è in crisi? Sì, ma non da oggi
Le avventure di Pinocchio hanno sostituito le comiche di Stanlio e Ollio su Raimovie, per cui sono tornato incidentalmente a seguire i dibattiti sul Covid all’ora di cena. Spesso sono anch’essi comici, ma di una comicità amara. Ora, per esempio, ci si interroga sul perché il tasso di letalità della pandemia sia più alto in Italia rispetto ad altre nazioni come la Germania. Non vi sono grandi differenze di classi anagrafiche (traduzione: abbiamo noi come loro un’alta percentuale di anziani) e quindi le cause vanno cercata altrove. Ci si accorge, così, che in Italia è stata sacrificata la medicina di base e più in generale sono stati effettuati pesanti tagli alla spesa sanitaria.
Non credo che per accorgersene ci fosse bisogno del Covid, però meglio tardi che mai. La riforma sanitaria di fine anni ’70 ha avuto una grande colpa: pagare il medico di base a paziente invece che a prestazione. Il vecchio dottore della mutua era remunerato a visita, con compensi maggiori o minori a seconda che si trattasse di visite a domicilio o ambulatoriali. Questo poteva portare a qualche abuso “alla Terzilli” (per i più giovani: il protagonista di un celebre film di Sordi), però presentava un grande vantaggio: il medico non era portato a considerare il paziente uno scocciatore, ma era interessato a visitarlo. Non nego che vi siano ancora oggi dottori che osservano rigorosamente il giuramento di Ippocrate, e tanti si sono eroicamente prodigati e tuttora si prodigano nel corso della pandemia. Però mi è capitato di leggere in ambulatori medici cartelli che limitano le visite a domicilio al caso di “pazienti intrasportabili”; gli altri, magari con la febbre alta, in pieno inverno, sarebbero dovuti venire con i loro mezzi (magari rischiando di risultare assenti alla visita fiscale, che invece viene a domicilio, e senza preavviso…).
Anche i medici hanno le loro ragioni: spostarsi in auto nelle medie e grandi città è difficile, posteggiare problematico, dove sono in vigore gli stalli con strisce blu rischiano di dilapidare il reddito lordo di 70 euro annui per assistito in ticket per la sosta. Senza contare che con quanto percepiscono si devono pagare l’ambulatorio, il sostituto, la segretaria, e magari anche l’assicurazione (sempre più costosa) sui rischi professionali. Fatale che per pareggiare i conti abbiano bisogno di avere molti assistiti e che l’assistenza non possa essere personalizzata.
Il fatto è che un medico di base dovrebbe avere meno pazienti, dovrebbe essere pagato adeguatamente a prestazione, non una tantum, dovrebbe essere lasciato libero di ricettare “in scienza e coscienza”, senza essere condizionato dai protocolli dei burocrati sanitari che lo obbligano a non superare un certo tetto di esami o di prescrizioni di farmaci. Protocolli dettati spesso da laureati in legge o in scienze politiche, o da medici che hanno smesso di fare il medico, ma pretendono di insegnare cosa fare o non fare ai loro colleghi in prima linea. Solo dando ai dottori di base meno vincoli e più soldi potrà essere recuperato un rapporto più umano fra loro e il paziente, perché la salute non è un algoritmo.
Invece, piuttosto che pagare meglio i medici, si preferisce spendere i soldi della sanità distribuendo prebende ai superburocrati e costruendo sempre nuovi ospedali, sempre più grandi, sempre più fuori delle città (ma con i parcheggi a pagamento anche in aperta campagna), destinati spesso a rivelarsi superati pochi lustri dopo l’inaugurazione. Il motivo si capisce: progettare una nuova struttura vuol dire bandire appalti, far guadagnare il progettista, commissionare per abbellirla vere o presunte opere d’arte in base alla legge del 2 per cento e quindi far guadagnare anche un vero o presunto artista.
Oggi ci si accorge dell’importanza del medico generico, al quale però – ossimoro burocratico non privo di un’involontaria comicità – si chiede di aver preso una specializzazione in “medicina generale”. In attesa che su qualche muro non compaia la scritta “Aridatece il dottor Tersilli”.
La nostra sanità di base è più o meno come le Divisioni del Duce nella WWII… Buone sulla carta, carenti di quasi tutto…