19 novembre
Trump 1. Tornare a Strapaese?
Nel panorama non esaltante dei commenti italiani sulle elezioni statunitensi, un’eccezione è costituita dal commento “Usa, il declino e il merito”, uscito sulla “Repubblica” di ieri a firma di Carlo Bastasin. Invece di lanciare anatemi contro Trump, Bastasin sviluppa un’analisi sociologica e spiega le ragioni del sia pur relativo successo di Biden consultando una “mappa del benessere” che attraversa i singoli Stati.
L’autore osserva intanto che la percentuale di consensi raggiunta da Trump non è molto diversa da quelle ottenute da McCain e Romney, i candidati repubblicani usciti perdenti dalle sfide con Obama. A cambiare però è l’estrazione sociale degli elettori. Se storicamente il partito dell’Elefante era stato votato in prevalenza dai ceti medio-alti, mentre i democratici rastrellavano i voti dei “perdenti”, prima i sudisti, poi le minoranze emarginate, quasi sempre la working class, oggi le parti si sono invertite: “Negli ultimi dodici anni, il reddito medio degli elettori americani del partito democratico è aumentato di circa il 15%. Quello degli elettori repubblicani invece è diminuito. Non solo i repubblicani sono diventati in media più poveri dei democratici, ma le circoscrizioni elettorali in cui prevalgono i loro candidati contano per meno di un terzo del reddito totale degli Stati Uniti. Da qualche tempo, gli elettori repubblicani non sono più la parte ricca del Paese.” Anche all’interno dei singoli Stati, Trump ha raccolto i maggiori suffragi nei centri minori, mentre Biden ha raccolto i consensi nei capoluoghi o anche in aree dove la New Economy ha recato una crescita del reddito e nuove opportunità.
È un fenomeno non solo statunitense. Si verifica anche nel resto d’Europa. Basta pensare a Parigi, un tempo feudo gollista, che da tempo elegge sindaci socialisti, a Londra, dove la Brexit ha ottenuto modestissimi consensi, e persino all’Italia e alla stessa Toscana. Nelle elezioni amministrative dello scorso anno mi ha colpito, per esempio, che il centrodestra abbia ottenuto risultati migliori in provincia di Firenze che nel capoluogo, mentre in passato a essere rosso era il “contado”.
Questi dati possono essere letti in diversi modi, e magari a destra qualcuno potrà essere tentato di scorgervi una sorta di rivincita di Strapaese su Stracittà. Resta il fatto che ogni nuova religione tende a conquistare i primi consensi nei centri urbani per poi diffondersi nelle campagne. Quando prevalse il cristianesimo, gli ultimi seguaci degli “dei falsi e bugiardi” vennero chiamati pagani perché vivevano nei pagi, i villaggi. E quella propugnata dalla sinistra internazionale, con il suo miscuglio di ideologia del gender, neofemminismo, mondialismo, indigenismo, è una nuova religione, che in parte si affianca, in parte si sostituisce alle religioni storiche, approfittando anche della crisi del cattolicesimo tradizionale. I politici di destra farebbero bene a ricordarsene, invece di pensare di poter vincere le elezioni limitandosi a gestire lo scontento. Da che mondo è mondo, la storia si fa nelle città e anche i “pagani” prima o poi finiscono per essere convertiti.
20 novembre
Fra Soros e Orbán l’Italia non gode
La sinistra ha buon gioco nel denunciare i rischi che comporterebbe il rifiuto di Ungheria e Polonia a sottoscrivere il cosiddetto Recovery Fund, danneggiando le aspettative italiane. In realtà, la presa di posizione dei due governi è di natura essenzialmente tattica: mira a bloccare la riforma dei rapporti interni all’Unione Europea e in particolare la norma che permetterebbe di tagliare i contributi Ue ai Paesi membri che non rispettano il cosiddetto “Stato di diritto”.
La questione è scabrosa, perché l’Italia rischia di fare le spese della guerra tutta politica della sinistra europea contro governi refrattari a subirne i diktat e in ultima analisi del conflitto fra il premier ungherese e il finanziere Soros. Certo, l’intento di assicurare attraverso ritorsioni economiche il rispetto dei diritti fondamentali del cittadino è nobile, ma è sul significato del termine Stato di diritto che emergono i dubbi. La sinistra, infatti, è sempre stata bravissima nel costruire una neolingua, creando vocaboli o inquinando il significato di quelli vecchi, con una manovra che i politici di destra, spesso refrattari all’uso del vocabolario, non sempre hanno capito. Basti pensare all’espressione “diritti riproduttivi” per indicare la legalizzazione dell’aborto, che è esattamente il contrario: il diritto a non riprodursi.
Fra le condizioni necessarie per essere considerati uno Stato di diritto, per esempio, viene indicata l’indipendenza della Magistratura. Affermazione bellissima, ma che richiede una precisazione: l’indipendenza del potere giudiziario dal potere esecutivo non deve escludere l’indipendenza di quest’ultimo dalla Magistratura e soprattutto l’indipendenza del singolo magistrato dalle correnti interne al suo organo di autogoverno.
D’altra parte è onesto aggiungere che in molti Stati di diritto l’indipendenza della Magistratura è intesa in maniera molto diversa da una completa autonomia. Negli Stati Uniti, la più grande democrazia del mondo, molti magistrati sono eletti direttamente dal popolo e al termine del mandato rischiano di perdere il posto: quando prendono delle decisioni, devono fatalmente tener conto degli umori popolari; in Francia, la patria di Montesquieu, il pubblico ministero (magistrat du parquet) dipende dal potere esecutivo. Solo in Italia, specie dopo il pesante ridimensionamento dell’immunità parlamentare, l’equilibrio fra i poteri è sempre più sbilanciato, con le conseguenze che tutti conosciamo.
Di conseguenza le argomentazioni che vengono utilizzate contro i sovranisti italiani potrebbero essere ribaltate. Il nostro Paese non rischia di perdere i benefici del Recovery Found per colpa di Polonia e Ungheria; è il tentativo di destabilizzare questi due governi che rischia di esercitare pericolose ripercussioni sulla nostra economia. Fra i due litiganti (Soros e Orbán), l’Italia non gode.
21 novembre
Berlusconi e Berluschini
Salvini sfida Berlusconi. Accoglie alla Camera tre transfughi forzisti (grave errore: con la riduzione del numero dei parlamentari sarà un problema assicurare loro un collegio) e osteggia un provvedimento che protegge Mediaset dalla concorrenza francese: evidente contraddizione per un sovranista. La sua è un’umanissima reazione alla disponibilità manifestata da Berlusconi nei confronti del governo. Però incrinando l’unità del centrodestra fa oggettivamente il gioco di una pur traballante maggioranza, che infatti gongola, anche se è divisa se accettare o no le profferte di Forza Italia.
C’è chi insinua che l’insuccesso abbia dato alla testa a Salvini, ma la realtà è più complessa. Quando una donna si sposa tre volte e altrettante divorzia (il ragionamento vale come ovvio anche per un uomo), è lecito sospettare che la colpa non sia necessariamente degli ex consorti. Se Berlusconi è stato sistematicamente abbandonato dai suoi alleati o dai suoi potenziali delfini, da Fini a Verdini, qualche motivo ci deve pur essere.
Non ho mai condiviso gli eroici furori antiberlusconiani di molti uomini di sinistra, e anche di destra. Ho sempre giudicato il leader di Forza Italia dai suoi comportamenti, senza farmi illusioni, come me le feci invece con altri. Ho apprezzato la sua tenacia, il suo coraggio, la sua capacità di sparigliare le carte e di violare molti tabù della democrazia italiana. Non mi è mai piaciuta la politica culturale (o aculturale) del suo impero editoriale, cartaceo e non, Fort Apache di Rete4 a parte. In particolare non gli ho mai perdonato di avere importato in Italia il Grande Fratello. Più di Berlusconi, ho semmai detestato i “berluschini”, categoria molto diffusa in Forza Italia e in genere nel Polo delle Libertà, fatta di imprenditori rampanti, di avvocaticchi senza cause, di commercialisti con qualche scheletro nell’armadio. Potrei ricostruire il tramonto di Forza Italia dal degrado della sua classe dirigente nella mia Firenze, ma ovviamente non lo faccio, perché farei un torto a Denis Verdini, che non ho mai amato, ma che ora è in prigione ingiustamente, mentre gli spacciatori sono a piede libero.
Non posso fare a meno di guardare però con malinconia a quest’ottantenne che ha avuto in mano l’Italia, e che oggi pur di contare ancora qualcosa si presta a fare da garante per la penisola a chi lo ha irriso pubblicamente, come la signora Merkel. La sua pazienza da commesso viaggiatore non suscita la mia ammirazione: ho sempre considerato la ricchezza non uno strumento per cenare a champagne a Porto Rotondo, ma la garanzia di non doverci inchinare dinanzi a chi ci disprezza e che noi disprezziamo.
22 novembre
Trump 2. Sesto potere
A proposito di poteri: ai tempi di Montesquieu erano, o sarebbero dovuti essere, solo tre. Poi si parlò di un quarto potere, quello della stampa, anche prima del celebre film con cui il venticinquenne Orson Welles fece il suo ingresso trionfale nel mondo del cinema. In seguito venne la televisione e i poteri diventarono cinque, dando modo a un’algida Faye Dunaway di vincere, con una pellicola dedicata alla videocrazia, l’Oscar per la migliore attrice nel 1977.
Con l’avvento di internet i poteri paiono diventati sei e, almeno negli Stati Uniti, il sesto è apparso nelle ultime presidenziali più forte del primo, censurando i tweet di Trump e proclamando in anticipo il vincitore. Sono ormai molti anni che Facebook e altre piattaforme bloccano i contenuti “politicamente scorretti”. Ma altro è censurare le vignette di Krancic, altro l’uomo (ritenuto) più potente del mondo.
Naturalmente, la sinistra internazionale è felice, nel suo odio per il candidato che osò umiliare Hilary Clinton. Ma non considera i pesanti rischi che comporta per la democrazia il potere censorio di enormi gruppi il cui capitale quotato in borsa supera il bilancio di molti Stati. Oltre tutto, chi avrà il coraggio di far pagare le tasse a chi ha il potere di influire in maniera forse determinante sulle elezioni?
23 novembre
Ora e sempre resilienza?
Il presidente Conte ha dichiarato di volere un’Italia “resiliente”. Prima eravamo un popolo di santi e di poeti, poi di resistenti, ora di resilienti. Ho sempre detestato questo neologismo, o meglio l’uso estensivo di questo termine, fino a pochi anni fa utilizzato in fisica per indicare la maggiore o minore resistenza di un metallo a una sollecitazione dinamica.
Ad acuire la mia diffidenza nei confronti di questo vocabolo è stato il modo con cui ne ero venuto a conoscenza, nella primavera del 2006. Pochi mesi prima del pensionamento, reintegrato nell’incarico di ispettore scolastico da cui ero stato epurato da una norma incostituzionale del governo Prodi, mi era venuto in mente di concludere la carriera organizzando un convegno sullo stress da lavoro dei docenti. Erano gli anni in cui era molto frequente il caso di insegnanti che attraversavano patologie psichiatriche spesso molto gravi. In realtà i casi di burnout erano diffusi già in precedenza e lo sono ancora, ma in quel periodo il fenomeno era aggravato dai frequenti casi di aggressioni verbali e fisiche da parte di genitori e studenti, dal blocco dei pensionamenti e di conseguenza dall’elevata età media di maestri e professori, nonché dalle pressioni da parte di presidi manager ormai inclini a considerarsi più controparte dei docenti che primi inter pares. Avevo già in mente un relatore, il dottor Lodolo D’Oria, uno studioso serio, un medico, non uno psicologo, autore tra l’altro di un saggio dal titolo illuminante, Scuola di follia, pubblicato da una gloriosa casa editrice specializzata nell’ambito pedagogico, la Armando. Cercavo però altri esperti e per questo mi rivolsi a un’insegnante che era stata distaccata presso l’Ufficio scolastico regionale. La professoressa mi propose alcuni psicologi che si erano specializzati nel campo della “resilienza” e subito annusai puzza di bruciato. Il problema, infatti, secondo me non era insegnare ai docenti a “resilìre” (termine il cui primo significato in latino è “saltare all’indietro”), ovvero abituarli a sopportare lo stress, magari attraverso gruppi di autocoscienza o altre sciocchezze care agli psicologi. Il problema era da un lato quello di rimuovere le cause del malessere stress, ripristinando la disciplina nelle classi, sospendendo o eventualmente espellendo gli alunni più aggressivi, migliorando le condizioni di lavoro, dall’altro di riconoscere depressione o burn out come malattie professionali, consentendo ai docenti con problemi psichici periodi di riposo o pensionamenti anticipati senza penalizzazioni economiche. Ebbi la sensazione che proporre a maestri e professori in grave crisi la resilienza fosse un modo di dire loro “arrangiatevi”, un tentativo di lenire i sintomi senza rimuovere le cause.
Non ho l’anima del lottatore e per di più ero tanto prossimo al pensionamento da non avere il tempo di organizzare un convegno che avrebbe richiesto tempo e mezzi non facilmente reperibili. Preferii gettare la spugna, e me ne vergogno ancora col dottor D’Oria, di cui continuo a seguire con interesse l’attività. Ma il vocabolo in questione mi è rimasto sullo stomaco e il pensiero che Conte voglia fare dell’Italia una nazione resiliente suscita in me più d’una preoccupazione.
24 novembre
Psicopatologia del Coronavirus
È forse prematuro tracciare una fenomenologia del diverso atteggiamento dell’uomo di sinistra e dell’uomo di destra nei confronti della pandemia. In generale, però, dal mio ristretto angolo visuale, provo ad azzardare un’ipotesi, ovviamente opinabile, come tutte le generalizzazioni. L’uomo di destra, individualista e geloso della sua libertà, tende a minimizzare (o, se si preferisce, a non sopravvalutare) i pericoli del Coronavirus e si mostra impaziente nei confronti delle restrizioni introdotte dai governi per limitare i contagi. A parte qualche fondamentalista, che vi scorge un castigo di Dio, considera la pandemia un fenomeno grave ma non un evento epocale, tutt’al più una conferma alla sua diffidenza nei confronti della globalizzazione. Preoccupato a torto o a ragione che il blocco delle attività produttive possa provocare più vittime del virus, in un primo tempo ha sperato nell’immunità di gregge, salvo ricredersi dopo aver constatato che il Covid prima di sparire avrebbe potuto fatto morire troppe pecore, e magari anche il pastore.
L’uomo di sinistra da un lato accoglie senza particolari problemi le restrizioni imposte dalla pandemia, perché è figlio di una cultura collettivista che subordina l’interesse collettivo alle libertà individuali: non a caso per molti decenni i suoi modelli sono stati l’Unione Sovietica e la Cina comunista. Per questo lo si può veder indossare la mascherina anche quando va in bicicletta o cammina in un bosco, quasi stesse votando la fiducia al governo Conte. E questo atteggiamento da primo della classe è il meno pericoloso: in fondo, riducendo l’apporto di ossigeno ai polmoni fa del male solo a se stesso. Dall’altro l’uomo di sinistra coglie nel coronavirus una forma di espiazione per le colpe del capitalismo occidentale e l’occasione per una svolta palingenetica. Il fatto che il coronavirus sia venuto dalla Cina, governata con pugno di ferro senza guanto di velluto dal partito comunista, e derivi, nella più benevola delle ipotesi, dalle pessime condizioni igieniche dei mercati in cui si vendono animali vivi pronti per il consumo non incrina le sue certezze, come non l’incrinava mezzo secolo fa il palese fallimento dei regimi comunisti. Non manca chi attribuisce l’origine della pandemia all’inquinamento, senz’altro deprecabile, dimenticando che le grandi epidemie facevano stragi ben più gravi prima della rivoluzione industriale e che si deve alle tanto demonizzate confezioni monouso di plastica se l’epidemia non ha fatto danni molto maggiori. C’è infine chi, sciacallescamente, indica come antidoto alla crisi finanziaria provocata dal coronavirus un’imposta patrimoniale o la reintroduzione della tassa di successione, dimenticando che il mercato immobiliare è già depresso e che a guadagnare sulla pandemia sono le multinazionali della New Economy cui sarà molto difficile far pagare le tasse.
Naturalmente, che l’inquinamento non faccia bene all’organismo è un dato indiscusso, e spengere la luce quando ci si sposta da una stanza all’altra, spostarsi se possibile a piedi o in bicicletta invece che in auto, evitare di pretendere di stare in casa col golfino a Ferragosto e in maniche di camicia a Natale sono tutti comportamenti virtuosi da incoraggiare. Ma chi ci promette di andare in paradiso col monopattino elettrico non è meno bugiardo dei genitori della futura Monaca di Monza, quando facevano credere a Gertrude che se si fosse fatta suora sarebbe andata in paradiso in carrozza.
25 novembre
Viva Stanlio e Ollio!
Ai tempi del deprecato ventennio, e anche del “regime” democristiano, come lo chiamava Pannella, la colpa che veniva attribuita alla stampa era di minimizzare, per evitare “allarmismi”, motivati o non. Accadde anche, nel 1956, con l’epidemia di asiatica. Perfino un giornalista di prim’ordine, oltre che grande narratore, come Dino Buzzati, scrisse sul “Corriere” un articolo che minimizzava il rischio di quella mortale influenza, sostenendo che la paura del virus era dettata soprattutto dalla sua origine esotica. Oggi, però, ci si trova dinanzi al rischio opposto. Dalla minimizzazione si è passati alla massimizzazione, con il bollettino dei contagiati, dei ricoverati, delle morti che apre ogni notiziario come fosse un bollettino di guerra. Comprendo le motivazioni di questa scelta, anche se a volte temo che la massimizzazione dei rischi da pandemia serva anche a minimizzare i pericoli derivanti dall’immigrazione clandestina, che prosegue indisturbata. Però non posso fare a meno di constatare che il loro effetto è deprimente, tanto più che ormai il telegiornale è visto il più delle volte dalla famiglia riunita a tavola. Per prevenire l’effetto demoralizzante dei Tg ho trovato per fortuna un antidoto nella stessa televisione: quasi ogni sera RaiMovie trasmette dalle 19,20 alle 21,05 le comiche di Stanlio e Ollio. Qualcuna di esse l’ho già vista, ma repetita juvant. E poi rispetto alle comiche di questo governo devo ammettere che almeno fanno divertire.
La lettura del tuo “Giornale di bordo” ,di cui condivido la gran parte degli scritti, diviene per me un momento di allegria nella quotidiana noia della realtà circostante.