di Nicola Caricola
Tornare al cinema lascia incerti in tempi di contagio dilagante. Ero bambino quando c’erano la pandemia di poliomielite, poi quella di “asiatica”: una peste polmonare, proprio come la “spagnola” di un secolo fa e come il Covid-19 oggi… Non c’è stata però nessuna chiusura generale tra metà e fine anni ‘50. Mia madre, sebbene cauta, mi mandava lo stesso al cinema: sempre al primo spettacolo e mai di sabato e domenica. Mi ci portava mia nonna, cinquantenne, che doveva farmi sedere con lei in mezzo alla sala, lontano dagli altri. Sono scampato alla poliomielite e sono diventato critico cinematografico. Presi l’asiatica, ma a scuola…
Oggi appare nelle sale il primo lungometraggio sulla Roma durante il contagio nella scorsa primavera, Lockdown all’italiana. Lo ha scritto e diretto Enrico Vanzina, lo hanno interpretato Ezio Greggio (prova matura che ricorda quella nel film di Pupi Avati, Il papà di Giovanna), Paola Minaccioni, Ricky Memphis e Martina Stella. Tutti danno il meglio e ciò accade quando la regia è sapiente.
Lockdown è la storia di due coppie che si incrociano per infedeltà. Coppie stanche, sì, ma non coppie infelici. La passione è finita per tutti e quattro, perciò non ci sono drammi, botte, vetriolo. Non c’è nemmeno l’esigenza di separarsi. Del resto non si può, causa Covid. L’umiliazione di scoprirsi cornuti, in un Paese dove nessuno ammette di esserlo, è attutita dall’essere isolati. Con qualche ragione Sartre diceva: “L’inferno sono gli altri”.
Con questa commedia all’italiana – di quella buona, di una volta – si sorride. E si esce dal cinema pensando, esercizio utile. Ne parliamo con Enrico Vanzina, autore di un testo dove chi sa di teatro troverà tracce di grandi del teatro e del cinema, da Sacha Guitry a Jean Anouilh, da Jean-Loup Dabadie & Yves Robert, quelli (Certi piccolissimi peccati) a Pascal Thomas (Mariti, mogli, amanti).
Un film da vedere in sala. Ma, con l’aria che tira, non è un azzardo?
“No. I cinema sono i luoghi più sicuri. Uno studio dell’Università di Harvard lo ha certificato. Una ricerca dell’Agis ha rilevato un solo contagiato su quattrocentomila persone che hanno frequentato le sale cinematografiche in questo periodo”.
Lockdown all’italiana è stato stroncato da chi non l’aveva visto. Ciò ha giovato al suo lancio, ma non era questo l’intento dei detrattori. Come spiega tanto astio contro di lei?
“Oggi è normale dare giudizi ‘prima’, senza conoscere e senza aver visto. E’ l’esercito incappucciato del web, codardi che non si firmano. Comunque, se ero il bersaglio, hanno trovato un bersaglio tosto. Non ci sto. E oggi che il film è uscito e lo hanno visto, questi codardi dovrebbero cospargersi il capo di cenere. Il film è esattamente il contrario di quello che dicevano.
Lei scriveva i film che suo fratello Carlo dirigeva. Vi accusavano di fare farse o cinepanettoni. Ora lei con Lockdown fa pensare divertendo. E ce n’è così bisogno…
“Detesto la parola ‘cinepanettoni’. Con Carlo abbiamo fatto sessanta film, dei quali solo sei sono usciti per Natale. Anche qui, chi non sa, taccia”.
La coppia “periferica” del film ha due stanze e cucina, l’altra ha un appartamento in centro. A dispetto dei redditi diversi, le due coppie si somigliano…
“Sono coppie fragili. Come lo siamo noi. Sono diverse in tutto, eppure identiche nelle fragilità. Si può essere infelici o felici con redditi alti o con redditi bassi”.
Il marito borghese ha tanti libri. Nei giorni di chiusura in casa, legge quello di Marco Risi sul suo rapporto col padre Dino. Direi che quel lettore è lei, Enrico…
“Quando scrivo guardo gli altri. Poi però sono io a scrivere. E’ chiaro che un po’ di me c’è sempre. A me non piace. Se questo vezzo è evidente, me ne dolgo”.
Il cinema italiano brulica di adultere interpretate da straniere, ma in Lockdown le adultere sono italiane. Lei colma il distacco dal cinema francese, immune da questi imbarazzi.
“No, per carità… Anche in Perfetti sconosciuti le donne sono italiane. Anzi, no, una è una bravissima attrice non italiana. Comunque non ci avevo pensato. E non voglio meriti”.
Nel suo film Roma si vede dai tetti, come la Parigi dei film realisti francesi anni ’30. Un caso?
“No, una necessità. Il mio era un film sul lockdown. Non si poteva uscire troppo…”.
Ricordando il primo incontro col futuro sposo, l’adultera più giovane coglie una svolta etica nel tempo trascorso. Una volta chi non aveva niente, aveva il pudore. Oggi non direi.
“La scena di Stella e Memphis, che ricordano il primo incontro, secondo me è la più bella del film. Ma non l’ho scritta e girata pensando a un moralismo sociale. E’ una bella scena e basta. Il pudore e il senso del pudore cambiano. I sentimenti no”.
Nella videoteca dell’avvocato s’intravvede il vhs di 55 giorni a Pechino di Nicholas Ray. Poi, in tv, passano le immagini di Marina Suma e Jerry Calà nel finale di Sapore di mare. Omaggio a Carlo? Lockdown è un film senza di lui, ma per lui?
“Il cinema è stato la mia vita. Quando penso al cinema, penso soprattutto al cinema degli altri. Tra loro c’è Carlo. E questo anche se i suoi film sono anche i miei. Ma Lockdown non è un film senza di lui. E’ un film con lui. Saremo sempre uniti”.