Per essere uno che ha il complesso di non essere amato, Giovanni Allevi ha una strana capacità di complicarsi la vita da solo. Dicendo, per esempio, cose così: “Credo che in Beethoven manchi il ritmo. Con Jovanotti, con il quale ho lavorato, ho imparato il ritmo”. Una boiata? Così la pensano i frequentatori di blog e social network, che al pianista hanno riservato insulti e ironia.
Di per sé, in effetti, la frase è davvero poco difendibile. Anche la scappatoia del postmoderno e della rivalutazione delle espressioni culturali pop deve trovare un limite e delle coordinate chiare, se non vuole finire nella dimensione opaca in cui tutto vale tutto. Quindi, tanto per cominciare, no, in Beethoven non manca nulla che si trovi invece in Jovanotti. Punto e a capo.
Passiamo ora al senso delle reazioni scandalizzate. Ipotizziamo un breve test: fischiettare qualche nota di tutti i brani di Beethoven che vengono in mente. E poi fare lo stesso con Jovanotti. Se l’interlocutore è onesto, nel 99% dei casi il prode Lorenzo straccerà il Ludovico Van in modo feroce.
Ma non è solo una questione di erudizione spicciola, è proprio un fatto di grammatica culturale. Quando siamo arrabbiati, felici, malinconici, innamorati, euforici riusciamo a declinare le nostre emozioni attraverso la complessità di un’opera sinfonica oppure troviamo tutti quanti più familiare una strofa come “è per te un’aranciata fresca / è per te lo scodinzolo dei cani”? Per quanto possa averla sparata grossa, con la sua boutade Allevi ha colto qualcosa dell’epoca e forse qualcosa di noi. La parte peggiore, forse, quella forgiata dalle semplificazione brutali dell’industria culturale, ma non possiamo far finta che non esista.
Lo stesso accade per il luogo comune che vuole l’uomo della strada intento a sparare a zero sui romanzi di Federico Moccia e Fabio Volo. Sicuri che tutti i critici dei due scrittori abbiano I Buddenbrook sul comodino? O non si tratta, forse, della sudditanza provinciale verso la “cultura alta” in sé, senza che tuttavia questo comporti una assimilazione autentica di alcun contenuto?
Se Beethoven, Dostoevskij e Rembrandt ci dicono ancora qualcosa, se ce ne facciamo carico come di un’eredità dagli effetti reali, se siamo capaci di far risuonare in noi la grandezza, allora possiamo anche misurare le distanze nei confronti di ciò che è mediocre. Ma se c’è solo da venerare ombre e digerire chiacchiera per crearsi un alibi, allora tanto vale abbandonarsi al flusso senza filtri, ma anche senza autoassoluzioni. Anche perché parliamoci chiaro: un italiano su due non è meno banale di Fabio Volo, anche se crede il contrario. Il che vuol dire che fra me e te che annuisci uno dei due sta bluffando.