Troppo tardi (mea culpa), mi sono accorto di essere nato e cresciuto nell’epoca della libertà, e di non averla saputo apprezzare abbastanza. L’epoca in cui non era obbligatorio darsi del Voi, ma in cui non si rischiava di passare per ottusi misogini a scrivere “la Rossi” invece che “Rossi”, in cui non era un reato l’omosessualità, ma non lo era nemmeno l’omofobia, e scrivere “negro” invece di “nero” non era ancora un crimen laesae maiestatis (lo scriveva pure “L’Unità”, che celebrò Lumumba alla sua morte come “eroe negro”). Non si era ancora passati al politicamente corretto dal fascisticamente corretto (che pure aveva una sua pur distorta logica: il Lei è ambiguo e la stretta di mano antigienica, come ci siamo accorti con l’emergenza covid). Certo, negli anni ’60 e nei primi ’70 vigeva ancora una censura moralistica che oggi ci farebbe sorridere e per andare a vedere un film pornografico bisognava andare in Francia (i francesi, in compenso, andavano in Italia per vedere la Battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo, che de Gaulle aveva proibito). Ma i fumetti erotici che compravamo di nascosto stuzzicavano la fantasia invece di saturarla e se all’epoca fu condannato al rogo un film decisamente brutto come Ultimo tango a Parigi oggi la stessa sorte spetterebbe alla parte della Rabbia, girata da Guareschi nel 1963, per le sue critiche alla decolonizzazione.
Ci si alzava in piedi in classe quando entrava l’insegnante, ma non eravamo condannati a genufletterci dinanzi al primo migrante per chiedergli scusa di essere nati in quella parte del mondo che consuma (ma anche produce) la maggior parte dei beni. Le donne non potevano esporre il seno nudo sulla spiaggia (il primo topless lo vidi in Costa Azzurra nel ’73), ma non si aveva paura di mettere a nudo le nostre idee, giuste o sbagliate che fossero (e a volte appartenevano alla seconda categoria; ma chi non fu estremista a vent’anni?).
Usa anni ’70
La dittatura del politicamente corretto ebbe inizio negli Stati Uniti degli anni ’70, alle prese con la grave crisi, morale ancor prima che politica, seguita all’affaire Watergate e alla sconfitta nel Vietnam; seguirono però gli anni del reaganismo e della vittoria nella guerra fredda e le sue peggiori aberrazioni vennero accantonate. In realtà il fuoco covava sotto le ceneri. La disfatta dell’Impero Sovietico, paradossalmente, coincise col rilancio della new left, anche per l’inopinata sconfitta di Bush padre alle presidenziali. Da allora non si è fatto che scendere per un lungo piano inclinato. Era come se l’Occidente, quasi vergognoso di aver trionfato dopo quarant’anni di guerra fredda sul suo nemico principale, volgesse le sue pulsioni distruttive contro se stesso, contro la propria identità, la propria storia, la propria cultura. Sconfitta sul terreno etico-politico ed economico-militare, la sinistra underground riemerse sul terreno della cultura. Il 1992, anno funesto non solo in Italia, con le celebrazioni dell’impresa colombiana trasformate in un revival indigenista in molte popolazioni dell’America Latina, che senza il Grande Genovese continuerebbero ancora a strappare il cuore ai prigionieri e ignorerebbero l’uso della ruota, segnò il crinale della svolta. In Italia il fenomeno ha assunto connotazioni diverse, con la trasformazione del vecchio Pci, che conservava ancora alcuni valori e aveva aderito riluttante alle battaglie per l’aborto, in un partito radicale di massa, secondo l’acuta diagnosi di Augusto Del Noce. L’enfasi posta sui veri (la Shoah) o presunti (il colonialismo, che svolse anche una funzione positiva) crimini dell’Occidente, servì alla sinistra post o neomarxista per far passare in secondo o in terzo piano i delitti del comunismo.
Alle ipocrisie della nouvelle vague ideologica sono stati dedicati molti saggi, da destra. Ne cito solo uno, Politicamente scorretto, di Gianfranco De Turris, che risale al lontano 1996. Ma, quando ci si approccia a questi scritti, c’è sempre il rischio di provare la stessa sensazione che si avverte quando si ragiona con amici che hanno le stesse convinzioni, e si finisce per annoiarsi a sentirsele ripetere, tanto che a volta spunta la voglia di contraddirle per non annoiarsi. Una buona notizia è dunque l’uscita, per i tipi di una casa editrice storica della sinistra, da parte di un autore di sinistra, di un pamphlet che demolisce sistematicamente le menzogne del politicamente corretto. E non perché io consideri più valida culturalmente l’opera di un autore di sinistra, quasi teorizzando lombrosianamente una sorta di inferiorità naturale di chi viene da destra, ma perché potrebbe costituire al tempo stesso una prova del nove della validità di certe tesi e il sintomo di un’insofferenza che travalica ormai i confini degli schieramenti ideologici.
Il libro di Culicchia
E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisia, pubblicato nel luglio scorso da Giuseppe Culicchia per i tipi della Feltrinelli, è un’opera tanto all’apparenza leggera quanto intimamente ambiziosa. Per un verso – e in questa direzione c’indirizza anche la bandella del volume – si rifà all’immortale per quanto incompiuto Dictionnaire des ideées reçues di Gustave Flaubert; per altri ricorda il Piccolo dizionario borghese pubblicato dalla strana coppia Longanesi-Brancati nel 1941 e riedito cinque anni fa dalle edizioni Henry Beyle. È un glossario delle ipocrisie di una certa gauche caviar, come si dice in Francia, o sinistra fiesolana, come diciamo a Firenze, convinta di amare il popolo perché mangia il pesce col coltello, di salvare il mondo perché gira in monopattino, ovviamente elettrico (senza preoccuparsi di come saranno smaltite le batterie), di andare in Paradiso perché definisce i ciechi non vedenti e di essere intelligente perché fa le vacanze a Capalbio. È qualcosa di più di un banale sottisier. È un eroico inventario delle ipocrisie del nostro tempo: più di duecento pagine divise per quattordici temi, dalla razza alla Tv, dal sesso al linguaggio, dallo sport alla storia, con qualche (forse inevitabile) ridondanza e molte irresistibili considerazioni, mascherate da consigli fra il cinico e l’ironico per chi voglia ben figurare in società. Non mancano la satira alla dittatura degli eufemismi, con la prostituta che diventa “diversamente vergine”, l’ironia sugli “antifa” che si iscrivono all’Anpi “senza mai avere imbracciato uno sten e in odio a Salvini”, ma anche consigli al vetriolo, in materia di sistema creditizio (“evitare di paragonare le banche agli strozzini: lo fanno storicamente i fascisti, da Ezra Pound agli occupanti di Casa Pound”) come di melting pot (“tesserne le lodi e proclamarne l’inevitabilità, felici di affermare che il destino dell’Umanità è il meticciato, ma evitare con cura di frequentare, specie in ore serali, determinati quartieri cittadini. Evitare di fare una gita a Parigi nelle celebri banlieue, non solo quando sono in fiamme, ma limitarsi piuttosto a Saint-Germain-des Près, al Marais e al Sedicesimo Arrondissement. Se rapinati a Milano dai membri di una padilla latinoamericana armati di machete, tenere presente che è meglio non reagire.”) o di meetoo (“ricordarsi anche dopo dieci anni di quella volta che. Sostenere che le foto in cui si sorrideva in abito da sera accanto a lui sul red carpet erano immagini che ovviamente non potevano dare idea della violenza appena subita dal lui in questione”).
La voce “marocchinate”
Svolge un ruolo di onesto risarcimento storico la voce “marocchinate” (“un po’ come nel caso delle vittime delle foibe, che per molti italiani sono com’è noto di serie B, si ha la sensazione che qui non ci si trovi in presenza di donne stuprate di serie B”), mentre la voce “puttane”, ironia della sorte, assume un alto valore etico, quando, obiettando alla retorica del bisogno che costringe una donna a prostituirsi, l’autore insinua un sottile interrogativo: “ma le donne che affittano l’utero ai gay che vogliono diventare padri lo fanno gratis? E il loro corpo non viene usato da uomini?”
La questione sociale dimenticata dalla sinistra
Le critiche più acute che Culicchia muove alla sinistra riguardano però la questione sociale. La precarizzazione del lavoro, voluta dal governo di centrosinistra con i decreti Treu a mezzo secolo dalla Carta del Lavoro fascista, è – giustamente – uno dei bersagli più frequenti del suo pamphlet. Irresistibili sono in questo senso i consigli che vengono impartiti in occasione della ricorrenza del Primo Maggio: “Organizzare il famoso ‘concertone’. Invitare i Modena City Ramblers e/o Giovanotti. Assicurarsi che almeno uno dei gruppi o cantanti in scaletta canti Bella ciao. Evitare di chiedersi se tra coloro che montano il palco o si occupano della tecnica vi sia qualche precario. Se costretti a casa dalla nota pandemia, guardare il ‘concertone’ in streaming ordinando una pizza a un rider di quelli che lavorano a cottimo per pochi euro e senza alcuna garanzia.”
Effetto Pansa
So bene che quanto sostenuto da Culicchia non è una novità, perché molti polemisti di destra lo scrivevano già da anni. Sotto un certo profilo, si potrebbe parlare di un “effetto Pansa” applicato alla satira di costume invece che alla storiografia: le denunce di Pisanò sugli orrori della guerra civile rimanevano confinate a un pubblico di destra, mentre, riprese da un giornalista antiberlusconiano e di sinistra, animarono un dibattito animato e fecondo. Ma questo non toglie nulla al valore di E finsero felici e contenti, un libro che, nell’attuale momento politico, potrebbe essere considerato provvidenziale. Culicchia non è Flaubert e forse non è nemmeno un nuovo Longanesi, anche se è sulla buona strada, ma ha una virtù che sotto questi chiari di luna manca a molti: il coraggio. Basterebbe questo a giustificare la lettura del suo libro.
Del tutto condivisibile.