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Mario Landolfi: “L’autonomia rafforzata può alimentare un incolmabile divario Nord-Sud”

L'ex ministro, con "La repubblica di Arlecchino" processa il regionalismo mettendo in evidenza gli aspetti deteriori post riforma del Titolo V

by Michele De Feudis
6 Agosto 2020
in Le interviste
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Mario Landolfi

Onorevole Mario Landolfi, già ministro della Repubblica, regionalismo e nuove autonomie sono uno terreni più scivolosi dell’attuale politica. Lei a questi temi ha dedicato il volume “La repubblica di Arlecchino” (Rubbettino), arricchito dalla prefazione dei Gennaro Malgieri. Con che prospettiva?

“I temi del regionalismo e dell’autonomia rientrano nella Costituzione. La stessa che all’articolo 5 definisce la Repubblica «una e indivisibile». Unità e indivisibilità, tuttavia, non sono concetti limitati alla sola integrità del territorio nazionale, ma investono anche l’uniformità dei diritti e dei doveri dei cittadini. Significa che l’autonomia non può creare italiani di serie A e di serie B. Purtroppo è proprio lì che ci sta conducendo la sbornia del regionalismo.  Confrontare, per credere, il reddito medio di un meridionale con quello di un settentrionale: cinquant’anni il primo equivaleva al 61 per cento del secondo; oggi non arriva al 53. In mezzo secolo, il divario tra Nord e Sud si è allargato. Molto presto, se non verrà bloccato, il progetto di autonomia rafforzata lo renderà un fossato incolmabile. E il bello, si fa per dire, è che tutto questo non è un regalo della Lega ma il frutto avvelenato della riforma del Titolo V della Costituzione voluta dalla sinistra nel 2001″.

Nel sottotitolo del saggio ha scelto di accomunare il regionalismo ad una “infezione”. La destra politica, già nel dibattito pre istituzione delle regioni, fu molto polemica sull’istituzione di questi enti intermedi. Come si sostanziava quella critica? Almirante, con il senno di poi, aveva ragione?

“Almirante parlò per nove ore di fila alla Camera. Il suo fu un discorso che potremmo definire profetico. Disse che le Regioni non avrebbero portato nulla di buono agli italiani. In compenso, avrebbero moltiplicato per venti la burocrazia, la partitocrazia, gli sprechi e il malgoverno. Mi sembra che abbia colto nel segno. In questo senso il regionalismo è davvero un’«infezione»”.

La riforma del Titolo V come ha compromesso ulteriormente gli equilibri istituzionali, e perché quella riforma piena di lacune ebbe i consensi necessari rivoluzionare i vecchi equilibri?

“La riforma del Titolo V è figlia di una suggestione e di un calcolo elettorale, entrambi errati ed entrambi coltivati dalla sinistra. La suggestione si chiama “Questione settentrionale” e il calcolo elettorale si basava sull’illusione che dando briglia sciolta alle Regioni l’elettorato leghista non avrebbe seguito Bossi che tornava l’ovile del centrodestra dopo cinque anni di insulti sanguinolenti a Berlusconi. Non fu così per una ragione molto semplice: l’operosa gente del Nord se ne frega dell’autonomia e del regionalismo. Alla politica chiede solo due cose: meno tasse e meno timbri. Bossi è stato abile nel dare a questa aspirazione, per altro comune alla maggior parte degli italiani, una veste “geopolitica” rappresentando il Nord come la mucca munta da “Roma ladrona” al solo scopo di allattare le burocrazie del “Sud sprecone”. Ma si tratta di una versione caricaturale del dualismo nazionale che non regge all’evidenza dei numeri”.

Quali interlocutori politici e intellettuali ha trovato in questo suo percorso di ricerca critica sulle regioni?

“Quella riforma ha sovvertito le gerarchie istituzionali mettendo tutti sullo stesso piano: Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato. Todos caballeros. Anni fa Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, analizzando la parcellizzazione dei poteri e la conseguente polverizzazione dei centri decisionali, ne dedusse che «In Italia non comanda più nessuno». Ed è vero. Senza considerare che il nuovo Titolo V ha creato una giungla di competenze miste tra Stato e Regioni che ha intasato le scrivanie dei giudici della Consulta. Sono loro a stabilire chi fa cosa. Nel frattempo, l’Italia perde competitività perché il contenzioso legislativo crea incertezza del diritto, scoraggia gli investimenti e paralizza lo sviluppo. Vogliamo continuare su questa strada? Basta dare più poteri alle Regioni”.

Anche i referendum contribuirono a svuotare competenze statali verso le regioni: è il caso di agricoltura e turismo, soppressi nel 1993. Nei due settori le regioni hanno fatto meglio dello stato nazionale?

“Se è per questo le Regioni hanno anche uffici all’estero. Tanto è vero che si presentano in ordine sparso alle grandi rassegne internazionali laddove invece andrebbe valorizzata l’offerta nazionale, il nostro made in Italy che tanto conta e affascina in tutto il mondo. Vale soprattutto per il turismo. Parliamo di un settore che prima del Covid rappresentava il 13,2 per cento del nostro Pil e che dà lavoro a 3 milioni e mezzo di persone, circa il 15 per cento del totale degli occupati. Un comparto così, detto con tutto il rispetto, non lo metti in mano ad un assessore ma ne fai un asset strategico dove convergono cultura, ambiente, beni culturali, trasporti e infrastrutture. Altro che turismo-spezzatino…”.

Nel saggio evidenzia come il coronavirus ha mostrato ulteriori limiti delle autonomie regionali nel contenimento dell’emergenza sanitaria. 

“Durante la fase acuta nell’emergenza Covid, ogni italiano ha potuto toccare con mano lo scollamento delle nostre istituzioni. Ha visto da vicino, qualcuno addirittura lo ha sperimentato sulla propria pelle, a quali esiti può condurre il conflitto tra autorità centrale e Regioni. Potrei fare mille esempi. Cito per tutti quello della mancata perimetrazione della “zona rossa” nei comuni bergamaschi di Nembro e Alzano Lombardo. Regione e governo hanno giocato allo scaricabarile. Ognuno ha pensato che avrebbe provveduto l’altro. Invece, non ha provveduto nessuno e molte persone sono morte anche per questo. Aggiungo che non si può affrontare un’epidemia se ogni Regione fa da sé. L’epidemiologia è una scienza che non si avvale solo della medicina, ma anche della statistica, della matematica e della demografia. Solo disponendo di un flusso di dati e di informazioni derivanti da metodiche uniformi è possibile prevedere la direzione e l’intensità della curva del contagio. Da noi ognuno ha fatto come gli piaceva: chi faceva i tamponi e chi no, chi usava un reagente e chi un altro, chi contava i morti con Covid e chi i morti di Covid. Per questo l’ho parlato di “Repubblica di Arlecchino”. Ogni pezza un colore, ogni colore una Regione, ogni Regione un’ordinanza. L’unico dato certo, in tanta confusione, è stato purtroppo quello dei decessi”.

Il ruolo della Lega: parla di sdoganamento dei barbari prima, ma l’attualità vede la battaglia leghista per l’autonomia differenziata, a cui si sono accodati anche i governatori del Sud. Quali rischi in questo scenario?

“La battaglia per l’autonomia differenziata rischia di rivelarsi una trappola letale per Salvini. I rischi politici li vedo soprattutto per lui. Il “Capitano” ha imboccato la strada della “nazionalizzazione” della Lega, anche perché solo con i voti del Sud può coltivare ambizioni di leadership. Finora non ha avuto problemi perché il vento del consenso gli ha gonfiato le vele. Ora, però, non sembra più quel tempo e i governatori settentrionali, Zaia in testa, chiedono tempi certi per portare a casa l’autonomia rafforzata. E qui Salvini rischia grosso perché quel progetto si finanzia con un fondo di solidarietà che serve a tenere in scia anche le Regioni più deboli. Di conseguenza, più sarà grande la fetta che andrà a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna più piccola sarà quella destinata ai territori del Sud. Morale: prevedo che a breve Salvini dovrà scegliere quale, tra “Prima il Nord” e “Prima gli italiani”, sia destinato a restare mero slogan”.

Come limitare il peggiore regionalismo, mentre l’Europa riconosce sempre più le macro-regioni come interlocutori?

“Su alcune misure la Ue dialoga direttamente con le Regioni. Lo Stato nazionale non viene neanche invitato. E l’esperienza insegna che chi non è al tavolo, spesso è nel menu”.

Dopo l’impegno parlamentare, la militanza civile con la ricerca politica e la saggistica. Ha in cantiere un prossimo volume?

““La Repubblica di Arlecchino” è un libro figlio della noia della quarantena. Ma non sono uno scrittore e non se continuerò. Attendo nuove ispirazioni. Se mai verranno…”.

*La Repubblica di Arlecchino, di Mario Landolfi (Rubbettino)

@barbadilloit           

Michele De Feudis

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Tags: Barbadillola repubblica di arlecchinomario landolfimichele de feudisrubbettino

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