Cosa vuol dire la parola attore, Lo Cascio lo ha dimostrato in poco più di venti anni di carriera. Gli inizi sono quasi goldoniani: il padre lo voleva medico, lui gira con una compagnia di artisti di strada “Le ascelle” e fa l’atleta. Poi riesce a partire a Roma e frequenta l’Accademia Silvio D’Amico. E’ allievo di Orazio Costa. Lo è sempre per quel marchio di fabbrica che Costa imprime ai suoi allievi migliori: essere il personaggio e il paesaggio, impastare e scheggiare mani e voce, farne corpo.
Se ne accorge subito Marco Tullio Giordana che volle quel ragazzo di 32 anni, portato per un provino dallo zio, l’attore Luigi Maria Burruano, per incarnare Peppino Impastato in I cento passi. Il film d’esordio vale a Luigi Lo Cascio un David di Donatello e il mondo del cinema. Nasce guitto Lo Cascio, e di quel tempo conserva la versatilità. Marco Tullio Giordana lo ha diretto in altri tre film La meglio gioventù, Romanzo di una strage, Sanguepazzo. Poi Marco Bellocchio lo vuole in “Buongiorno, notte e in Il traditore. Con Cristina Comencini fa Il più bel giorno della mia vita e La bestia nel cuore. E ancora Il capitale umano con la regia di Paolo Virzì, I nostri ragazzi diretto da Ivano De Matteo, Il nome del figlio diretto da Francesca Archibugi, Smetto quando voglio – Masterclass e il sequel Smetto quando voglio – Ad Honorem di Sydney Sibilia. Grazie alla sua interpretazione del pentito di mafia Salvatore Contorno vince il Nastro d’Argento e il David di Donatello come miglior attore non protagonista. E’ Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile in Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni; nel 2004 Nastro d’Argento come miglior attore protagonista per La meglio gioventù. Nel 2012 debutta alla regia con La città ideale presentato alla Settimana Internazionale della Critica per la 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e per il quale nel 2013 viene nominato ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento come Miglior Regista Esordiente. Poi c’è il teatro: Otello da Shakespeare riscritto in siciliano, Delitto/Castigo e Dracula con la regia di Sergio Rubini. A Siracusa ha letto con grande successo Aiace di Ghiannis Ritsos.
Cominciamo da “Aiace” e da un fiore. In una sua intervista ha raccontato della gioia di essere riuscito a far attecchire una pomelia. Il suo primo libro (Ogni ricordo, un fiore per Feltrinelli), una sorta di omaggio al Calvino degli incipit, fa del fiore la metonimia dei ricordi. Aiace – racconta il mito- muore e dal suo sangue nasce un fiore e un calligramma “ai”. Aiace era nel suo destino?
“Forse era nel mio destino proprio perché non ci avrei mai pensato ed era una cosa imprevedibile. Ci voleva Ritsos e la scrittura (un monologo drammatico) per pensare a me nei panni di Aiace: nessun regista di tragedie greche, dovendo fare un allestimento dell’Aiace, penserebbe a me. Basti guardare le descrizioni: il guerriero più alto, glorioso, enorme, secondo solo ad Achille per forza, capace da solo di bloccare l’impeto delle armate nemiche. Ma immaginando un Aiace caduto, stramazzato al suolo, per cui non si può constatare la sua altezza (ride) e con una modalità dell’eroismo che non è quella della forza cruenta mossa verso la battaglia, allora può intervenire un corpo più fragile e una voce misurata come la mia. Se la tragedia può, nel Novecento, essere letta e riscritta in maniera diversa, accade che anche io possa provare a pronunciare parole che hanno a che fare con il mito”.
Mi permetto di dissentire sul corpo: Luigi Lo Cascio potrebbe misurarsi con la tragedia greca
“Forse sarei più un Oreste che la figura canonica del guerriero colossale. Un Odisseo dove prevalgono il discorso ben costruito e i modi dell’astuzia. Oppure un Filottete dolorante. Non questo eroe capace di stragi come può essere appunto Aiace”.
Siamo al corpo dell’attore. Quanto è importante, per lei, il corpo? In scena il corpo dell’attore può divenire un corpo sacrificale
“Mi piacerebbe pensare che il teatro sia, a suo modo, un sacrificio. Però, rimanderebbe a parole, immagini o modelli portatori di tensione. Credo invece il teatro sia un gioco. Molto serio, che va verso la capacità di sapersi spogliare di sé, rinunciare a se stessi. Il fatto che il teatro abbia del reversibile fa sì che anche il sacrificio abbia una dimensione ludica. Ci sono altre forme di rinuncia, di annullamento di sé, da prendere molto più alla lettera”.
La sua è una recitazione molto fisica.
“L’intelligenza dell’attore si manifesta attraverso l’atto scenico, la sua presenza concreta. Quando si dice corpo si dice tutto: anche voce e movimento. Lo racconta anche Aiace in Ritsos, lo racconta tutto il mito. Per esempio, la cura del corpo degli eroi dell’Iliade non è solo vanità, ma comporta anche la solidità, lo stare in piedi, essere credibile nello scontro. Lo stesso per l’attore: c’è una condizione dinamica, agonistica che lo obbliga a considerare il proprio corpo come qualcosa di irrinunciabile, da proteggere, addestrare, tenere in continuo allenamento. Qualcosa che ha a che fare con l’esercizio ginnico e contemporaneamente espressivo perché ogni gesto e movimento portano senso. Qualcosa che ha a che fare con la fisiologia del corpo e con la sua tendenza, muovendosi, a diventare scrittura.
Dopo il reading “La scoperta della luna” al Teatro Parenti, è la volta di un’altra lettura al Teatro Greco di Siracusa. Il pubblico è stato entusiasta. Come è andata?
“Premetto: la mia è una lettura, che mi esime dalla necessità di diventare Aiace. Semplicemente faccio riaffiorare dalla pagina le parole e la scrittura: è inevitabile venire catturati dalle parole che sono di una bellezza incredibile. Certamente ho pensato a un abbozzo di interpretazione, a qualcosa che esplora il testo, tenta contemporaneamente di renderlo voce, di farlo vivere nello spazio. La lettura per me è una forma di entusiasmo. Un’occasione, una tra le tante, e stavolta insieme a tutti, di corale decifrazione del testo, di messa alla prova anche di quanto diamo capaci di sostenere parole di questo tipo. Per un disguido, sono arrivato in teatro tardi e ho temuto di non trovare la concentrazione. Poi è passata. La forza delle parole di Aiace per Ritsos era legata alla lingua, per me è stata legata anche alla potenza del luogo: ogni tanto mi staccavo dalle pagine e mi guardavo intorno per caricarmi di quella potenza”.
Ritsos scrive Aiace da prigioniero e si proietta in Aiace in quel momento della sua vita, quando teme di perdere l’onore. Il tema dell’onore porta al suo cinema, un cinema “civile”. I suoi personaggi cinematografici da Peppino Impastato a Totuccio Contorno di “Il traditore”, passando per il giudice Polillo di “Romanzo di una strage” e Mario Moretti di “Buongiorno, notte” fino a Dorando Pietri della fiction televisiva “Il sogno del maratoneta”, sono personaggi legati in un modo o nell’altro a un certo concetto dell’onore, finanche ribaltato e tradito. E’ possibile un dialogo tra i personaggi del suo cinema e questo Aiace?
“Non credo che Ritsos avesse il problema di sentirsi gli occhi addosso. Piuttosto il bisogno di proteggere l’onore e di non cedere derivava dal pensiero che il suo nome sarebbe stato pronunciato dagli altri, da quelli che erano fuori. È un nome che poteva diventare un esempio per gli altri. Se proprio lui avesse ceduto sarebbe stato un disonore per tutti, qualcosa che avrebbe fatto moltissimo male alla causa di cui Ritsos era uno dei numi tutelari. In questo senso c’è già un ampliamento del concetto di onore che ha a che fare con il nome di un popolo e non il nome di un singolo. Riguardo proprio ai miei personaggi mi viene in mente Domenico di “Noi credevamo” che sperimenta il carcere e sa di essere recluso. Poi ci sono le persone che si interrogano nel momento della caduta che somigliano ai personaggi di Ritsos presi in una condizione di assoluta debolezza: un’Elena ormai sfiorita, un Agamennone che sta per essere ucciso. Da personaggi così, da persone così l’onore è una forza intesa come constatazione della propria ferita”.
Pensiamo alla percezione che un attore ha di se stesso come personaggio, come quel personaggio, anche nello spazio fisico in cui smette per un attimo di esserlo: i costumi di scena addosso, ma fuori dalla scena, in pausa o in attesa di rientrare. Penso a lei che diventa Totuccio Contorno. Lei ha la consapevolezza di avere toccato con quel personaggio l’apice dell’adesione interpretativa?
“Sa che sto cominciando a crederci anch’io? Ho ricevuto, come non mi capitava da tempo, messaggi, telefonate che mi dicono questa cosa. Ma mentre capitava non ero per niente consapevole. L’immagine del passaggio è molto bella e mi soffermo spesso pure io su questa cosa: può essere anche lo spazio tra un ciak e l’altro, o il camerino che è una condizione di soglia. Nel film Il traditore il passaggio poteva diventare anche disturbo. Mi spiego. Nel film faccio cinque o sei scene mentre il piano di lavorazione durava mesi: capitava che io andavo un giorno, ripartivo e ritornavo dopo un mese e mezzo. Se sei l’attore protagonista, dopo il primo giorno di disorientamento comincia l’autosuggestione. Da attore non protagonista, devi mantenere il collegamento con quello che è stato girato e con il fatto che la vita ti porta inevitabilmente da altre parti. Sotto tutti i punti di vista. Anche sul versante linguistico, perché ero impegnato in altri progetti. La forza linguistica del personaggio l’ho colta solo quando ho visto le scene ricompattate. Contorno parla un dialetto caratteriale: ho avuto molto piacere a interpretarlo, mi sembrava un personaggio con una attraente ricchezza espressiva. Recitare in palermitano stretto, non mi era capitato nemmeno con Peppino Impastato, tranne in due momenti, quelli della mafiosa commedia”.
A proposito di Peppino Impastato e della bellezza di cui dovremmo essere responsabili. La sua immagine di artista è legata a ruoli impegnati, anche quando ha interpretato personaggi intimi, come in “Luce dei miei occhi”. Si sente in qualche modo responsabile della bellezza?
“In certi contesti non si può non prendere una posizione. Bellezza è avere una direzione, una cosa di profondo, autentico, fortemente sentito, che ci sposta dalle nostre abitudini mentali. Ed è l’arte. Più della responsabilità, a me interessa la ricerca di una passione interna. La fedeltà che posso avere verso la mia passione, automaticamente diventa responsabilità, la logica conseguenza di essere all’altezza dei miei interessi. Anche Aiace in Ritzos dice “ho tradito voi, ho tradito me stesso””.
A Venezia fuori concorso sarà presentato “Lacci” di Daniele Lucchetti. Lei ha lavorato- tranne in due casi Spike Lee con Miracolo a Sant’Anna e Stijn Coninx con Marina- con registi italiani, i più importanti. Cosa dire del cinema italiano?
“Il nostro cinema ha un patrimonio di lingue: si sente, per la varietà delle regioni e dei dialetti, se un film è siciliano o pugliese o piemontese. Come la varietà della nostra cucina, dei nostri borghi, della nostra letteratura. Il nostro è un cinema fatto di tanti cinema e ha dei grandissimi autori, tutti diversi. Per questo mi viene difficile parlare di cinema italiano, ma di registi nati in Italia. E io sono stato fortunato a lavorare a lavorare con molti di loro”.