Per rinascere, l’Occidente in declino deve fare un moto inverso, rivoluzionario: tornare all’origine, andare verso Oriente, dove la Luce sorge, non tramonta. Dopo la conquista del West, deve avventurarsi nella conoscenza dell’Est, in modo da riappropriarsi dell’identità perduta. In questa scoperta del Sol Levante ci guida Mario Vattani, ex console in Giappone, coordinatore Ue-Asia alla Farnesina e raffinato scrittore: in quest’ultima veste ha dato alla luce una perla editoriale già in fase di ristampa, Svelare il Giappone (Giunti, pp. 398, euro 19).
Vattani, lei scrive che il Giappone «tende a nascondere anziché a mostrare». Come è possibile svelarlo?
«Il titolo è volutamente ambiguo. Non si tratta di un Giappone svelato, ma di uno svelare il Giappone, come una missione che può durare anni, a volte alcune vite».
La missione dell’Occidente è guardare al Sol Levante per ritrovare il proprio spirito sorgivo?
«Sì, su vari piani. In primo luogo nel rapporto con la tradizione, ossia nella capacità di mantenerla come cosa viva.Noi siamo ossessionati dal conservare la tradizione nella forma di luoghi ed edifici da restaurare. Quella giapponese, viceversa, è una tradizione vissuta nell’azione, nel movimento, nell’apprendimento. Essa non è un cimelio, ma opera nei gesti, nello stile, nella mentalità del popolo».
Ciò consente un rapporto più sereno col passato, senza sensi di colpa e abbattimenti di statue?
«Il Giappone ha rielaborato seriamente il proprio passato, in particolare la partecipazione al secondo conflitto mondiale al fianco di Italia e Germania. Ne ha fatto i conti ma allo stesso tempo ha avviato un tentativo di conoscere meglio e far conoscere ai suoi giovani cosa fu realmente quel periodo. Secondo alcuni, la durezza e a volte la crudeltà con cui l’esercito imperiale si comportò nei paesi occupati durante la guerra del Pacifico sarebbe frutto di una terribile ingenuità. Come se le le autorità nipponiche avessero voluto applicare rigidamente in quei paesi le stesse regole ferree che venivano imposte ai giapponesi, addirittura la lingua. In effetti il Giappone nella sua storia non ha mai subito la colonizzazione. Quando si è affacciato al mondo moderno uscendo dall’isolamento, lo ha fatto prima forzato dalle “navi nere” del Commodoro Perry, ma poi per propria scelta, per evitare di essere conquistato. L’occidentalizzazione, insomma, non è stata subita, ma decisa consapevolmente, a scopo difensivo. Quanto all’abbattimento delle statue, non sarebbe un fenomeno credibile: in primo luogo per questo rapporto più consapevole con la propria storia, quindi perché in Giappone basta lasciare una scritta su un muro per finire al fresco, da ultimo perché nel Sol Levante si abbatte solo per ricostruire: quando ad esempio un santuario viene distrutto, lo scopo è ricostruirlo fedelmente, per dimostrare che la tradizione è una cosa viva, che si rinnova. Un discorso a parte meriterebbe l’abbattimento degli edifici antichi, quelli provati soprattutto a causa delle tasse di successione, ma quello è un altro argomento».
Un legame solido è anche quello verso la comunità. Da dove nasce questo senso di appartenenza lontano dal nostro individualismo?
«È un valore fondato sul sistema educativo. Mentre noi pensiamo alla comunità come a una somma di individualità, in Giappone la comunità è un corpo organico, il cui fine è il mantenimento dell’armonia. L’aspetto interessante è che ciò non significa spirito gregario, perché al contrario il senso comunitario può dare origine ad atti individuali di coraggio impensabili».
In Giappone non si viene tacciati di fascismo e xenofobia, se ci si proclama nazionalisti?
«No, perché il destino della nazione è vissuto come un destino comunitario. Il saluto alla bandiera, il canto dell’inno, la commozione nelle celebrazioni in memoria dei caduti, il patriottismo non sono concepiti come atteggiamenti di una parte, ma come espressioni di un’identità comune che riguarda tutti i giapponesi. Certo, l’ostentazione aggressiva di simboli militari viene di solito guardata con sfavore dalla maggioranza dei giapponesi».
Questo spirito patriottico spiega la politica molto rigorosa sull’immigrazione?
«Il principio che limita l’immigrazione è il seguente: la società deve funzionare e, perché funzioni, tutti devono sapere come comportarsi. Gli stranieri che non lo sanno, o che criticano il modo in cui si comportano i giapponesi, o semplicemente non capiscono la lingua e le regole sociali, sono visti come elementi di disturbo, corpi estranei. Pertanto possono essere accolti solo se si adeguano alla civiltà giapponese: esistono per esempio dei programmi promossi dal Giappone con altri paesi asiatici per la formazione, ad esempio in Sri Lanka o nelle Filippine, dove il personale impara la lingua e la cultura giapponese e solo dopo vengono chiamati a lavorare in Giappone. L’immigrazione clandestina viceversa è impossibile. Chi provasse ad arrivare sul territorio giapponese con un barcone verrebbe fermato già al largo, oppure immediatamente rimpatriato e comunque arrestato».
Come mai in Giappone non ha attecchito granché un altro totem politicamente corretto, l’ecologismo gretino?
«Innanzitutto per una ragione pratica. In Giappone se il venerdì scioperi anziché andare a scuola, passi guai molto seri. Ma ci sono tre ragioni più profonde: la prima è che in Giappone l’Ambiente non è un feticcio ideologico ma è percepito come una presenza: parliamo di un Paese dove la forza della Natura si avverte dappertutto sia nella sua bellezza (è un Paese verdissimo) sia nel suo aspetto di matrigna (terremoti, tsunami). In secondo luogo, i giapponesi hanno un senso dell’ordine instillato sin dai primi anni di vita. Non c’è bisogno di qualcuno che dica loro di non sporcare, perché lo fanno già abitualmente. Da ultimo, il Giappone è un Paese industriale, consapevole che, per svilupparsi, occorre forzare la mano sulla natura, sebbene con rispetto. Basti pensare alle tante centrali nucleari qui presenti. I giapponesi preferiscono il senso pratico all’ideologia».
Parliamo di sessismo. Anche in Giappone c’è una caccia alle streghe contro i presunti maschilisti?
«Anche da questo punto di vista il politicamente corretto non ha sfondato, anche se ci sono ogni tanto dei casi eclatanti, nel mondo dello spettacolo, della politica, e anche del giornalismo. In Giappone non è richiesto adottare atteggiamenti cavallereschi. L’uomo non deve spostarsi per far passare prima una donna, quando si aprono le porte dell’ascensore. Non deve versarle da bere né essere lui a regalare qualcosa a lei il giorno di San Valentino. Le donne le considerano sdolcinatezze, da guardare con sospetto. Esiste certamente una divisione di ruoli tra maschio e femmina, ma naturalmente la società si evolve. Anche in Giappone negli ultimi decenni la donna, sebbene spesso lavori, è colei che si deve anche occupare della famiglia, non solo dei figli, ma deve perfino sobbarcarsi i suoceri. La situazione femminile nel mondo del lavoro in Giappone è al centro di un dibattito molto acceso, e il premier Abe ha lanciato l’idea della womanomics. Ciò non vuol dire tuttavia che la donna sia sottomessa. Al contrario, se da una parte l’uomo rimane in ufficio fino a tardi, almeno finché non se ne vanno i suoi superiori, la donna giapponese è meno costretta dalla rigida gabbia di responsabilità basata su rapporti di anzianità. Almeno nelle classi medio alte, è relativamente più libera, viaggia all’estero più degli uomini, impara le lingue, esplora ristoranti stranieri e studia i vini, è meno costretta dagli obblighi sociali che soffocano il tipico salaryman».
50 anni fa si uccideva lo scrittore giapponese Yukio Mishima per ribellarsi al suicidio della civiltà e «restituire al Giappone il suo vero volto». Alla fine ha vinto Mishima o la società dei consumi che lui contestava?
«Ho la sensazione che abbia vinto il Giappone. Il Paese in cui viveva Mishima era molto diverso da quello attuale. Era in corso quella che lui chiamava “femminilizzazione della società”, in cui non c’era più spazio per l’uomo che deve combattere e agire. Ora invece, pur essendosi affermate cose ultramoderne, il Giappone è riuscito a guardare dentro di sé e a custodire la propria essenza. È l’atteggiamento descritto dal regista Kurosawa nella figura del samurai Benkei, il quale china la testa non per rispetto ma perché aspetta: attende il momento in cui l’identità culturale del Giappone possa risorgere». (intervista pubblica su Libero in versione leggermente ridotta)
Molto bello. In Giappone ci vive, sposato con una giapponese divorziata (cosa rarissima) il fratello di mio genero, innamoratissimo della cultura giapponese. Mi ricordo l’imbarazzo, ripetuto, di quando visitavo un collega giapponese nel mondo ed il ‘codice sociale invertito’: prima passa l’uomo, poi la donna, prima si siede a tavola l’uomo, poi la donna, sull’autobus, mi dicono, ancora oggi una donna cede il suo posto all’uomo e si alza ecc. So che i giapponesi non hanno una grande considerazione degli italiani, in genere. Probabilmente ne hanno tutte le ragioni.