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Giornale di Bordo. Il Coronavirus e gli effetti virtuosi delle restrizioni: addio open space

Il caso Scuola: non si può delegare istruzione e formazione alle babysitter

by Enrico Nistri
26 Maggio 2020
in Cronache
4
Ufficio open space

Piccoli e grandi regali della pandemia

Come tutti gli italiani, sono incline all’autocommiserazione. Devo ammettere, invece, che il Coronavirus non mi ha portato solo danni. Qualche piccolo beneficio me l’ha recato e solo oggi che la vita comincia a riprendere il suo corso ne avverto la mancanza. Tanto per fare un esempio, sono scomparsi i postulanti che mi suonavano al campanello di casa sollecitandomi di cambiare gestore per la luce, il gas o il telefono. Si affacciavano vestiti di tutto punto, completo blu stile Conte, per intenderci, anche se ovviamente non sartoriale, armati di una cartella con le improbabili offerte e – al posto della pochette – un tesserino di riconoscimento plastificato che chiunque si può fabbricare con pochi euro in copisteria. Chiedevano di vedere i contatori per verificare i consumi, si premuravano di verificare le ultime bollette, che ovviamente non sapevo dove trovare, se mi rifiutavo mi trattavano da mentecatto, perché rinunciavo a sconti incredibili. E mi lasciavano diviso fra la tentazione di mandarli a prenderlo “dove piaceva a Maria Luigia” (cfr. Quell’antico amore di Carlo Laurenzi, Rusconi 1972, Premio Selezione Campiello) e un atteggiamento di sudditanza psicologica, figlio della compassione per dei poveracci costretti da un sistema scolastico che non li ha preparati a nessun vero lavoro a rompere le scatole al prossimo con intrusioni al limite della legge.

Un altro regalo della pandemia è stata la riduzione del traffico veicolare e del relativo inquinamento acustico e atmosferico, una riduzione che continua ancora, sia pure in minor misura, dopo la fine del confinamento, indice del fatto che molto smog nelle città e non solo è legato all’abitudine di accompagnare i figli, anche grandicelli, in auto a scuola. Non è solo colpa dell’indolenza dei ragazzini, o dell’iperprotettivismo dei genitori, ma anche di una politica che ha portato alla chiusura di molti plessi scolastici, in campagna ma anche nelle città, un po’ per esigenze di risparmio, un po’ per quell’ossessione del controllo che porta spesso a concentrare in grandi istituti comprensivi tutti gli scolari, dai bambini delle materne agli adolescenti delle medie. Spero che l’esperienza della pandemia a settembre conduca a un cambiamento di rotta: più sezioni staccate e meno auto in doppia o tripla fila davanti alle scuole.

Un ulteriore beneficio della pandemia – non per me, ma per chi lavora in ufficio o nelle redazioni – potrebbe essere il tramonto degli open space, invenzione statunitense nata all’apparenza per favorire gli scambi di idee fra colleghi, in realtà per consentire un maggior controllo non solo da parte dei dirigenti nei confronti dei subalterni, ma degli stessi impiegati fra loro. Pare che li abbia introdotti per la prima volta Italo Balbo, che li importò dagli Stati Uniti per rendere più efficiente il ministero dell’Aeronautica.

A provocarne il declino dovrebbero essere esigenze di igiene fisica, ma in realtà i benefìci potrebbero essere anche di igiene psichica. Come c’insegna la scienza etologica, l’iperconcentrazione di persone in uno spazio limitato e per di più chiuso favorisce l’aggressività, oltre a danneggiare la concentrazione mentale. Oltre tutto, in un mondo del lavoro in cui si comincia ad accorgersi che un dipendente deve essere valutato per i risultati raggiunti e non controllato solo per la presenza fisica, i teorici del panopticon sono da considerare superati.

Ricordo ancora la pessima impressione che mi fece la redazione del quotidiano fiorentino “La Nazione” quando vi entrai per trovare un amico, un pomeriggio dei primi anni Novanta. I redattori erano tutti seduti alla loro postazione a scrivere o più spesso a “cucinare” notizie d’agenzia. L’allora direttore Riccardo Berti girava fra le scrivanie come un professore zelante si aggira fra i banchi per controllare che gli alunni non copino. Il rumore dei suoi passi copriva il ronzio dei computer. Se avessi avuto voglia di entrare in un giornale (allora avevo qualche numero), avrei senz’altro rinunciato.

Beneficio non secondario della pandemia è stata anche la chiusura forzata delle discoteche, luogo di sballo e di spaccio (come, purtroppo, troppe scuole), con annesse disoccupazione di molti pusher (temo però che molti di loro abbiano chiesto e ottenuto il reddito di emergenza) e sospensione delle stragi del sabato sera. Non credo che durerà molto, ma per molti genitori credo sia stata, fra tante preoccupazioni, motivo di non poco sollievo.

Alla pandemia debbo essere grato anche della scomparsa dal piccolo schermo di quelle cretinissime pubblicità di farmaci sintomatici, che promettevano a professionisti in carriera e a impiegati stakanovisti di poter uscire di casa anche con l’influenza per la felicità di clienti e capufficio. A parte che secondo me la pubblicità dei farmaci dovrebbe essere vietata, perché le medicine dovrebbero essere prescritte solo dai medici o tutt’al più comprate, nei casi meno gravi, su consiglio dei farmacisti, un impiegato, un cuoco, un cameriere che va a lavorare con la febbre non è un eroe, ma una persona che danneggia, sia pure con le migliori intenzioni, chi gli sta intorno. Ci sono volute decine di migliaia di morti per farlo capire; c’è da sperare solo che la cessazione del contagio non riporti in auge nella pubblicità televisiva gli emuli di Stakanov.

C’è però un regalo che non avrei mai desiderato dalla pandemia. Sono tre o quattro chili in più, conseguenza sia della riduzione forzata delle uscite (accompagnare un bassotto di undici anni a fare i bisogni non combatte l’adipe), sia dell’importanza che il cibo assume in una vita priva di distrazioni esterne, in cui i contatti col mondo sono quelli che passano attraverso lo schermo di un televisore o di un computer.

Non gioco alla vittima: so benissimo che avrei potuto fare ginnastica in casa, addirittura on line; oltre tutto gli spazi non sarebbero mancati. Ma io non ho una concezione penitenziale dell’attività fisica, che per me da sempre è gioia di sentirmi in sintonia con la natura e con la bellezza, di camminare a passo rapido nel bosco o nel cuore di Firenze, di sentire il vento in fronte mentre vado in bicicletta. Ogni anno i mesi da aprile in poi sono sempre stati quelli in cui smaltivo i chili di troppo presi con le festività di Natale o gli stravizi del Carnevale. Oggi questo rito di passaggio è venuto meno. Dovrò comunque porre un rimedio, perché, come diceva Nietzsche, la pancia è l’unica parte del corpo di cui l’uomo non può andare orgoglioso.

Ma una maestra non è Mary Poppins

Leggo sui giornali la notizia di manifestazioni in tutta Italia, promosse dal comitato “Priorità alla Scuola”, per sollecitare al ministro dell’Istruzione la riapertura degli istituti educativi a settembre. Condivido del tutto l’esigenza che le lezioni riprendano dal vivo, senza più la mediazione di strumenti informatici che possono avere assolto una funzione positiva in situazioni d’emergenza, ma non surrogano certo il rapporto diretto fra docente e discente. C’è però un dettaglio, nelle proteste dei genitori e degli insegnanti, che mi lascia perplesso. I manifestanti chiedono, anzi pretendono certezze, su una situazione che è estremamente fluida, almeno quanto il virus. E questo mi sembra un po’ troppo.

Non me la sentirei certo di paragonare l’attuale (per quanto?) ministra  dell’Istruzione Azzolina non dico a un de Sanctis o a un Croce, ma nemmeno a un Gonella, a uno Spadolini, a un Valitutti.  Ma credo che né un de Sanctis, né un Croce, né un Gentile, e nemmeno un Bottai o un De Vecchi, con tutta il decisionismo garantito dal fatto di essere titolari della Minerva in un regime autoritario, sarebbero in grado di assicurare quelle certezze che i virologi sono in grado di garantirci. Se la pandemia avrà allentato la sua morsa a settembre non lo deciderà l’onorevole Azzolina, né il comitato “Priorità alla Scuola”, né il premier Conte. A certi genitori che pretendono l’impossibile bisognerebbe ricordare quello che avrebbero dovuto insegnare ai loro figli, ovvero che, come si dice a Firenze, “l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino di Boboli”.

E poi, debbo confessarlo, mi punge un sospetto. Sono sicuro che la maggior parte dei manifestanti (virtuali o reali) per la riapertura delle scuole siano mossi da sincere preoccupazioni culturali nonché igieniche e psicologiche: troppe ore davanti al televisione o a un computer non fanno bene né alla salute fisica né alla salute mentale. Ma temo che non manchino neppure, fra i parenti degli alunni delle scuole dell’infanzia e dell’obbligo, quanti sono allarmati per l’indisponibilità, a settembre, di quelle baby sitter gratuite che agli occhi di molti genitori sono divenuti gli (e ormai soprattutto le) insegnanti.

Il problema c’è, e infatti il governo, dopo aver chiuso le aule, ha distribuito ai genitori che lavorano un bonus baby sitter, non un contributo per l’acquisto di modem o di tablet. Ma la scuola non è mera custodia, sorveglianza o magari, come va di moda dire da qualche decennio, “socializzazione”. E una maestra o una professoressa delle medie non è Mary Poppins. La scuola è istruzione, è formazione, è, o meglio dovrebbe essere, educazione. E, sia detto per inciso, se questa funzione educativa non fosse stata pregiudicata dal permissivismo dilagante, in famiglia e in classe, forse sarebbe molto più facile riaprire le aule con qualche accorgimento di relativo impatto economico. Si ha un bel proporre, infatti, di fare lezione a classi dimezzate, con l’assunzione di precari e il ricorso a doppi turni. Ma le odierne insegnanti, demonizzate se appena osano alzare non le mani ma solo la voce con scolaresche indisciplinate e spesso irriverenti, difficilmente potranno imporre il “distanziamento sociale” ad alunni che confondono la scuola nel migliore dei casi col Paese dei Balocchi.

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Enrico Nistri

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Comments 4

  1. guidobono says:
    8 mesi ago

    Non sono d’accordo. L’impiegato (pubblico, specialmente) se non si sente osservato parla al cellulare per ore o gioca col computer, e basta… Gli uffici per essere minimamente efficienti non devono garantire nessuna privacità. Il lavoro non è tutela della privacità del lavoratore. È lusso funzionale dei dirigenti.

  2. guidobono says:
    8 mesi ago

    L’Open Space è un’ottima cosa.

  3. guidobono says:
    8 mesi ago

    Quello è lusso funzionale, ovviamente…

  4. Enrico Nistri says:
    8 mesi ago

    Non credo si tratti di “privacità”, ma di uno spazio più adatto alla riflessione e alla concentrazione. Naturalmente i rischi di “imboscamento” ci sono, ma specie dopo l’avvento del computer verificare la produttività del dipendente dai risultati sarebbe molto facile. Il buon dirigente non è quello che sta addosso all’impiegato, ma quello che sa creare anche col proprio esempio un ambiente di lavoro collaborativo. Per fare questo deve in primo luogo emarginare quel cinque per cento di impiegati polemici, spesso maldicenti, abilissimi a seminare zizzania fra i colleghi. Ne basta uno (o una) per far nascere la sindrome dell’ufficio malato. In genere sono quelli che dicono che il collega non lavora, e dicendolo sottraggono tempo al loro, di lavoro. Il dirigente in gamba in più dovrebbe cercare di evitare il più possibile i tempi morti e cercare di realizzare un ambiente di lavoro confortevole. Faccio un esempio: ho conosciuto due direttori scolastici regionali (non specifico la regione, per ovvii motivi). Entrambi bravi. Uno, di formazione giuridico-formale, era bravissimo nell’interpretare leggi e circolari, però aveva un gusto un po’ borbonico di far fare anticamere anche di ore ai dipendenti e agli stessi dirigenti e ispettori, mentre lui protocollava la posta assistito da un funzionario che stava in piedi davanti a lui. Tutto tempo perduto, e un’ottima occasione per chiacchiere di anticamera. L’altro si recava a trovare tutti nelle loro stanze e se invece qualcuno doveva andare a trovarlo nel suo ufficio, magari per chiedergli un parere, lo faceva passare per un momento, anche se era al telefono. Con lui lavorare era un piacere.
    Naturalmente si tratta di un’opinione personale, però vorrei aggiungere che, a parte alcuni casi limite, la psicologia dello statale è molto cambiata dagli anni ’70 e dai primi anni ’80. Ricordo il giorno (primavera 1980) in cui mi recari alla Farnesina per un concorso per lettore di italiano. Dopo il colloquio scesi nel sottosuolo, dove si trovava un enorme spaccio aziendale. Il personale del ministero faceva la spesa durante l’orario di servizio, ma chiamava la moglie per ragguagliarla sulle quotazioni dell’abbacchio o della cicoria. Naturalmente non c’era i cellulari, per cui tutti chiamavano in franchigia dai telefoni che erano a disposizione di tutti (anch’io ne approfittai, lo confesso, per avvisare a casa che il colloquio era andato bene).

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