Agli occhi di un bambino degli anni ’50, poi adolescente curioso. Razionale per carattere e topografia: l’antico castrum romano, la cinta della colonia su cui venne fondato il primitivo insediamento, con il reticolo di vie ortogonali. L’allora proconsole Giulio Cesare vi insediò un accampamento militare, data la posizione strategica per la via delle Gallie. La definitiva fondazione avvenne per decisione di Ottaviano Augusto con una seconda colonia, Augusta Taurinorum, nel 21 a.C. L’antica capitale di Emanuele Filiberto, del secentesco Theatrum Statuum Sabaudiae viveva nelle contrade diritte, nei palazzi barocchi, nei nomi dei corsi e delle vie. Vittorio Emanuele II, il primo baffuto Re d’Italia, ‘passeggiava’ sui tetti del centro dall’alto monumento del corso omonimo. Poca poesia: per un Savoia del ‘700 erano solo ‘mezze righe’!
Poi venne ‘Italia ’61’, una vetrina ambiziosa per il Centenario dell’Unità, più che una Esposizione. Il nostro, agli occhi di un bambino, non sembrava un Paese sconfitto da poco, ma una operosa nazione con architetture e soluzioni d’avanguardia (ricordo, ad esempio la monorotaia, un’illusione, con tanti progetti strampalati che l’accompagnarono), che dal rutilante Risorgimento eroico confluiva direttamente negli anni ’50, il tempo della grande ricostruzione.
I Savoia erano finiti male. Sopravvivevano nella pietra e nei bronzi le glorie antiche: realtà ed immaginario. Del fascismo non si ascoltava quasi, al di là di date abolite. La Chiesa era onnipresente, nei venerandi o nuovi templi, nei severi sermoni etici o propagandistici a favore della DC, durante le domenicali, affollate messe. I vescovi erano influenti e potenti, trovavano o negavano un posto di lavoro. Era comune ascoltare dai padri che poco era cambiato dai tempi del Regime: ‘al posto della camicia nera corta era arrivata la talare nera lunga’! La Polizia continuava a sapere tutto di tutti. Chi leggeva l’Unità, ad esempio, era segnalato come ‘militante comunista’. Poi che non si lamentasse, pur non rischiando più confino, Tribunale Speciale…Torino rimaneva una ex capitale di caserme, brulicante di bajet, soldati mal uniformati che invadevano il centro al calar del sole. Era più che mai la ‘Detroit d’Italia’, la principale produttrice di autoveicoli. Adesso in agonia, senza speranza di resurrezione. La città è diventata una bella e mediocre urbe di servizi.
Il tempo del positivismo, della grande industrializzazione
La FIAT, fondata nel 1899 (senza dimenticare le coeve Lancia, Ceirano, SPA, Itala, Diatto, Scat, Temperino, Chiribiri, Aquila), si convertì nella maggiore manifattura della II rivoluzione industriale: il tempo dell’auto ‘industria delle industrie’, strategica, culturale, del positivismo, della generalizzata fiducia nel progresso scientifico e tecnologico. La vicinanza a Francia e Svizzera, la rete ferroviaria, le risorse idriche ed energetiche (grandi centrali idroelettriche e dighe in costruzione), una manodopera specializzata già esistente, favorirono tale sviluppo. Un poderoso apporto all’industria metalmeccanica lo diede l’Arsenale delle Costruzioni di Artiglieria, subentrato, dopo lo scoppio del 1852, alla Regia Fabbrica delle Polveri e dei Nitri, sul sedime dell’opificio distrutto. L’Arsenale di borgo Dora ampliò le fabbricazioni e le superfici occupate, fino ad un’area di 6 ettari: il principale stabilimento meccanico del borgo ed uno dei maggiori della città. Impiegava da 500 a 800 operai e capi, civili e militari; le punte massime di occupazione furono toccate nel corso dei due conflitti mondiali. Un po’ come in Questa fu la Prussia di Hans-Joachim Schoeps, Volpe, 1966 (ristampa con titolo diverso: Lo spirito prussiano, Oaks, 2018). Per secoli i prussiani discussero del ‘tempo dei doveri’, che coincideva con la dignità umana. Il Piemonte, come canterà, anni dopo, Gipo Farassino, era pieno di ‘travajeur sensa soris, con la vos dura a ‘l cheur d’avlù’ (lavoratori senza sorriso, con la voce dura ed il cuore di velluto). Similmente alla Prussia, da noi la religione dei doveri era un tutt’uno con la religione del lavoro, il dovere per il dovere, prima ancora del riferimento all’utile.
Non si concepiva una esistenza fuori da quei binari. Ciò spinge a riflettere sulla ‘civiltà del dovere’ in un presente superficiale, che crea sempre nuovi diritti, talora strafalari. Il Piemonte
e Torino in quegli anni, con la perdita di capitale del Regno (1865), ottennero come sorta di indennizzo la concessione di una politica di sgravi fiscali per gli imprenditori che intendessero investire sul territorio. Questa agevolazione calamitò la presenza di vari industriali italiani e soprattutto inglesi o elvetici: Abegg, Bich, Caffarel, Caratsch, Kind, Krupp, Leumann, Miller, Menier, Metzger, Remmert, Scott, che contribuirono alla vocazione industriale del capoluogo. La fabbrica diventa il cuore della vita economica e sociale della ‘città delle macchine’. Pienamente investita dall’industrializzazione di guerra, Torino ebbe modo di approfondire nel 1915 il proprio volto di ‘città industriale’ per eccellenza. Si consolida il settore metalmeccanico, non solo con la dominante industria dell’automobile, ma pure degli aerei, mezzi da trasporto, bus, filobus, trams, materiale ferroviario e locomotrici; le carrozzerie (Farina, Ghia, Garavini), le biciclette (Frejus).
Nel 1938 il 46% dei circa 200 mila lavoratori sarà occupato nel settore metalmeccanico. Ricordiamo en passant la siderurgia; le industrie di cavi elettrici; la Savigliano Elettromeccanica, costruzione e riparazione di materiale ferroviario, ponti metallici, macchinari elettrici; le macchine tipografiche (Nebiolo); la Michelin italiana, la Ceat, la Superga (gomma e pneumatici); la lavorazione del tabacco, i tessili, lanifici, cotonifici, poi le fibre e tessuti artificiali (Snia Viscosa); la grande industria alimentare, enologica, dolciaria (Venchi Unica, Pernigotti, Ferrua) e del cioccolato (Caffarel, Talmone, Pfatisch, Stratta, Baratti&Milano, Peyrano, Ferrero d’Alba, più tardi), birrerie, gelaterie; il settore chimico e farmaceutico, l’ industria del legno, dei pianoforti, per alcuni anni le produzioni cinematografiche e così via. Una città con vasti impianti, ma anche con una boîta, una bottega quasi in ogni cortile, di geniali artigiani, in un mondo ancora relativamente meccanizzato, creatori e riparatori di quasi tutto. Un universo di tornitori, fresatori, nichelatori e doratori, elettricisti, orologiai ed orafi, falegnami e minusieri, stuccatori, gessisti, pittori, vetrai, corniciai… E di meccanici, manutentori e carrozzieri per i nuovi veicoli a motore.
Durante la settimana le notti di Torino erano un mortorio. Tutti a letto presto per alzarsi di buon’ora, per la scuola o il lavoro.173 mila abitanti nel 1861, 416 mila nel 1911, il Cinquantenario dell’Unità festeggiato dai padiglioni di cartapesta della Grande Esposizione Internazionale dell’industria e del lavoro al Valentino. Saranno 630 mila, nel 1936, fino al massimo di 1.168.000 nel 1971. Nel 2020 il 14,6% dei residenti di Torino sono stranieri, rumeni e marocchini in primis. (segue seconda puntata)
I marocchini, in particolare, sono un gran problema a Torino, per quello che apprendo.
Poco più di 840 mila residenti ad oggi Questo è il vero problema di Torino piùche i marocchini Una completa decadenza, termometro dell’assenza di progettualità alternativa alla Fiat , con nessuna capacità finanziaria autonoma dalle fondazioni bancarie che alimentano da decenni l’amichettismo autorefernziale dei soliti noti
Torino sta diventando la città dormitorio della middle class, che lavorando a Milano non può permettersi i suoi affitti