Maradona o Pelé? Una domanda che esige una risposta. Con il cuore, non con la mente. Le carriere sono state asimmetriche. Gli atteggiamenti umani dissimili. I caratteri opposti. L’interpretazione del calcio univoca: spettacolo e vittoria. Pelé ha caratterizzato la rinascita di una nazione nel 1958, battendo a 17 anni la Svezia e conquistando la prima Coppa Rimet con cinque gol contro la favoritissima di casa che ne fece soltanto due (Hamrin, poi della Fiorentina, poi del Napoli), dopo la tragedia del “ Maracanazo” nel 1950, vittima dell’Uruguay di Obdulio Varela, Schiaffino e Ghiggia.
Maradona non ha soltanto espresso in proprio un calcio stellare, bello come quello del brasiliano indubbiamente, ma è stato la guida di una vendetta calcistica concretizzatasi nel 1986 all’Azteca di Città del Messico contro di odiati inglesi che avevano appena sottratto, da bucanieri incalliti e impenitenti, le isole Malvinas all’Argentina.
Salì nel cielo messicano il pugno con il quale, da corsaro non meno incallito e impenitente, Maradona acchiappò l’orgoglio britannico e lo trascinò nella polvere. Fu gol per l’arbitro, uno di quelli di valgono anche se sono falsi perché al di là del gesto tecnico che lo propiziò c’era l’avventura di una nazione in quel furto con scasso, il più sublime del football; fu gol per la nazione in delirio che voleva riprendersi la dignità infangata nel 1978 quando il criminale George Videla consegnò nelle mani di Daniel Passarella e di Mario Kempes, l’eroe crinito che piegò gli Orange olandesi alla fine di una estenuante cavalcata con la quale attraversò il campo sulla fascia destra incitato come un gladiatore dagli spettatori, la prima Coppa Rimet conquistata dalla Selècion. Ma fu la seconda rete, quella della vittoria che resterà la più bella della storia del calcio. Maradona prese la palla da Burruchaga, se non ricordo male, scartò quattro avversari, con una velocità impressionante che in meno di un minuto lo portò dal centro del campo fin sotto la porta avversaria e calciò curvandosi all’indietro, quasi distendendosi, e inchiodò la palla alle spalle di Shilton. Era il 22 giugno: una data che gli argentini non dimenticheranno mai più.
Nel Santos e nell’Argentinos Junior o nel Boca, le storie si sono ripetute centinaia di volte. Pelé e Maradona non sono mai usciti fischiati dal terreno di gioco. Ma a differenza del brasiliano, l’argentino ha fatto qualcosa di più: ha redendo Napoli ed in sette anni l’ha fatta diventare la capitale mondiale del calcio. Si dirà: due scudetti una Coppa UEFA, una Coppa Italia e qualche altro trofeo minore non sono un bottino di guerra che può rivaleggiare con quelli di altre squadre blasonate. Ma c’è da aggiungere che tutto ciò che dal 1984 al 1991 il Napoli ha conquistato porta il marchio di Maradona. Soprattutto la primazia nello splendore di un’ improvvisazione senza pari, geniale come un soffio di tromba di Miles Davis.
Lo affiancavano compagni di indubbio valore, ma lui le partite riusciva a vincerle anche da solo. E con la classe, la spregiudicatezza, l’inferno che seminava nelle file avversarie, la simpatia , la strafottenza e l’umanità che dentro e fuori del campo esibiva come un qualsiasi scugnizzo, aveva il dono di far innamorare tifosi e profani: per sette anni Maradona è stato Napoli. Nessun calciatore al mondo può vantare una identificazione con la città del club in cui ha militato come il pibe de oro. Neppure Pelé, la cui classe inimitabile è un ricordo che mi portò addosso, un’ammirazione che mi conquisto bambino dopo averne visto spezzoni di gioco sul piccolo teleschermo in bianco e nero nel 1958; dopo aver pianto nel 1962 quando s’infortunò nella seconda partita in Cile contro la Cecoslovacchia ed il mondiale lo salvò un altro genio del pallone: il funambolico Amarildo; dopo aver gioito nel 1966 ai Mondiali d’Inghilterra; infine dopo aver pianto di dolore e di gioia per quell’irripetibile colpo di testa che con il quale iniziò le marcature all’Italia, trafiggendo l’incolpevole Albertosi nella finale messicana del 1970.
Al cospetto delle divinità pagane del football m’inchino e non discuto. Ne amo tante di un passato ormai lontano. Ma su tutte Maradona. Il Comandante. Che mi piace oggi come ieri salutarlo alla sua maniera, che potrebbe essere quella di qualunque rivoluzionario, come feci in un caldo pomeriggio di una vita fa abbracciandolo negli spogliatoi dell’Olimpico dopo una partita con la Lazio: Hasta la victoria siempre.