Caro Direttore,
Leggo la recensione di Cabona sull’ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, e vorrei svolgere in proposito alcune considerazioni. Chi, come te, mi conosce, sa che mi piace leggere tra le righe dei film, alla scoperta di significati e messaggi che magari vanno aldilà delle intenzioni dell’Autore. Ebbene, proprio questa lettura motiva la mia delusione di fronte a questo lavoro del regista pugliese, che avevo apprezzato per la sua capacità di restituire al pubblico l’immagine della società italiana di questi anni, per di più strappando qualche amaro sorriso. Checco Zalone s’inseriva insomma a pieno titolo nel solco della commedia all’italiana, toccando – anche se non nella singola opera compiuta, ma solo in alcune sequenze – i vertici raggiunti da maestri come Risi e Comencini, Monicelli e, perché no?, Sordi.
Ridendo castigat mores, dicevano gli Antichi, e con i suoi Cado dalle nubi, Sole a catinelle e Quo vado, il dottor Medici – questo il vero nome del regista – senza averne l’aria, sferzava certe cattive abitudini nostrane, dalla furbizia alla mania per il posto fisso, dalla pigrizia al familismo amorale e così via, addirittura sfidando, con garbata ironia, il tabù dell’omofobia. Curiosamente, una simile attitudine produceva opere controcorrente, procurandogli da un lato il favore del grosso pubblico, dall’altro la sottovalutazione (quando non l’avversione) della critica ossequiente al Pensiero Unico.
Ebbene, con Tolo Tolo questa iperbole sembra superata: i risultati del botteghino sono infatti ancora lusinghieri, ma la critica appare molto più “morbida”. A mio avviso, il film è confuso e superficiale; intanto, la storia del protagonista, vitellone inconcludente della provincia pugliese, che, di fronte al fallimento in patria, va a tentare fortuna in Africa, appare inverosimile fin dall’inizio. È questo sarebbe il meno, se il film procedesse con acume e coerenza, soprattutto dovendo affrontare un tema delicato come quello dell’emigrazione e del confronto fra civiltà.
Purtroppo, così non è. E se il prologo in Puglia abbozza l’immagine di una famiglia avida e incattivita (madre, moglie separata, parenti vari) con l’aggiunta delle consuete macchiette di disoccupati lamentosi, burocrati di paese, popolani invaghiti dall’ultima moda anche gastronomica (il sushi!) e da un’improbabile fusion di generi musicali, le riprese in Kenya e in Marocco (che finge la Libia) vanno anche peggio.
Qui Zalone si mischia ai poveri disgraziati in cerca di miglior vita aldilà del deserto e del Mediterraneo, e il suo cruccio maggiore consiste non già nell’aver lasciato gli affetti (?) o la sua terra, ma la preziosa cremina eliminarughe. Modeste poi sono le sue peripezie nel continente nero, comunque all’insegna del luogo comune: l’incontro con il bambino indigeno e con la sua presunta, bella madre; il compagno di disavventure pure lui nero, colto e straccione; i trafficanti di esseri umani di cui non si vedranno mai le efferatezze; l’invulnerabilità da cartoni animati dei protagonisti, vere salamandre tra le fiamme della guerriglia e del terrorismo che si presume islamico (c’e un accenno a Boko Aram); perfino l’incontro con un giornalista francese, destinato a fungere da foglia di fico di un cattivismo diventato buonista: pur di fare il suo scoop, il reporter non esita a mettere a repentaglio la vita dei suoi occasionali compagni di viaggio.
Nel frattempo, nelle incursioni in patria della macchina da presa, sembra tornare il “vecchio” Zalone satirico, con l’intermittente cameo dell’amico disoccupato rimasto in Puglia e avviato ad un’impensabile carriera politica, da prefetto a ministro, presidente del Consiglio e addirittura a presidente della Commissione Europea. E’ la parodia del sogno italiano, la cui realizzazione abbiamo sotto gli occhi sulla nostra odierna scena politica.
D’altra parte, la motivata avversione del protagonista verso la patria (a cui ha lasciato un bel debito), non si traduce in una sincera adesione alla civiltà in cui si trova catapultato; addirittura, non mancano inattesi e impropri siparietti, con imitazioni di pose ducesche e sottofondi di “faccetta nera”; ma qui la tesi non sembra essere quella dell’accoglienza a tutti i costi e meno che mai dell’integrazione (a meno di voler considerare tale la scena della “pizzica” con arrangiamento africano): bastano le scontate riprese del camion stracarico di disgraziati e quelle del salvataggio in mare, con il nostro protagonista che fa la voce grossa al telefono con l’amico diventato prefetto, per sollecitare lo sbarco.
Si aggiunga che la tanto deprecata (dal mainstream) clip promozionale con il nero immigrato che arriva a insidiare casa e moglie del personaggio di Zalone non c’entra nulla col film; così, anche quell’occasione di scorrettezza politica viene meno. Si è detto che può aver nuociuto a quello che fu il campione della scorrettezza politica la collaborazione con Virzi’, ma non lo credo, se ricordo alcune premonizioni cinematografiche di quest’ultimo – da Ferie d’agosto a Caterina va in città – sulle mutazioni in atto fra destra e sinistra, quelle sì controcorrente, a quell’epoca.
E allora? Difficile trarre conclusioni, anche se la tentazione di non spiacere proprio a destra e sinistra sembra accompagnare tutto il racconto e condizionare la morale, che ogni favola – anche quella cinematografica – deve avere. E come nelle favole, c’è il lieto fine in riva al mare, con la composizione di un nucleo familiare a dire il vero un po’ ambiguo (col bimbo nero, ci sono la pseudo-madre, il padre ritrovato in Italia, e lo stesso Zalone, non sappiamo in quale veste). Speriamo solo – e non … Tolo – che non sia scomparso il Checco Zalone che scandalizzò la gauche caviar …