La felicità, signorina, è fatta di attimi di dimenticanza.
(Totò)
Sono tantissime le icone di quello che fu “il campionato più bello del mondo”. Gli anni ’80 del calcio italiano sono stati un’overdose di sogni, culminati nell’orgia di desideri che fu Italia ’90.
Tra i simboli di quell’epoca ce n’è una che è davvero dura a tramontare. È l’immagine di un ragazzotto brasileiro, riccioluto, che col pugno al cielo e una maglia verde addosso, gira come una trottola, vorticoso, attorno alla bandiera del calcio d’angolo.
Juary aveva talento, certo. Ma in Italia c’è spazio per un solo straniero a squadra e a lui tocca l’Avellino. In Irpinia, però, il clima non è proprio di festa. Anzi, la festa promozione e quella per l’esordio in massima serie è subito rovinata: a novembre c’è stato il terremoto rovinoso, quello dell’80 e del “Fate Presto”: le ferite sono aperte e sanguinanti. Ma la vita, proprio quando tutto intorno vorrebbe negarla, deve andare avanti.
Chi scende in campo, al Partenio, non può andarci pensando solo a divertirsi né può credere solo alla salvezza: ha una missione che è quella di regalare, alla povera gente prostrata dalla tragedia, e che in questa non ha perduto nemmeno un grammo della sua atavica e orgogliosa dignità, un po’ di quella felicità che si trova nell’oblio dei guai.
Quell’Avellino sarà capace di farlo, ed è per questo che lì ancora ci si ricorda con tantissima nostalgia dei “dieci anni in serie A”. Non è solo una questione di amarcord pallonaro, di glorie passate, di vivificare ricordi per combattere il grigiore del presente. Quelli furono gli anni della Legge del Partenio, di quando gli squadroni arrivavano in provincia e se strappavano un pareggio se ne tornavano in città soddisfatti.
Un ciclo lungo inaugurato proprio dalla sveltezza e dalla rapidità di quella punta brasiliana, veloce e sgusciante, che capitalizzava il durissimo lavoro della squadra. E, a ogni gol, portava la collinosa Avellino che lavorava sodo per ricostruirsi, tra le spiagge di Rio, in alto fin sopra il Pan di Zucchero. Con quell’esultanza che oggi sarebbe diventata un marchio da twittare e che ieri, invece, fu l’attimo di dimenticanza di una città e di una provincia che voleva scrollarsi le macerie del terremoto e della disperazione.
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