Il calcio ha trovato il suo paradiso. È l’Oriente. Laddove si produce e si consuma a basso costo ogni cosa. A cominciare dal divertimento. E, per le note leggi del mercato, se più s’investe tanto più si guadagna, soprattutto se i prodotti offerti sono di qualità e la platea dei fruitori è immensa. In Cina, soprattutto – dove su un miliardo e mezzo di persone almeno la metà sono affamate di football – sta esplodendo lo sport nato, sviluppatosi in Europa e, attecchito in America Latina, è diventato una mirabolante giostra ludico-mediatica sulla quale chi ha avuto la fortuna di salirci è destinato a non scendere mai più. Soprattutto se le sue qualità sono al di sopra della media.
Accade così che nell’impossibilità di trovare e far crescere (almeno per ora), campioni autoctoni, le nuove potenze economiche del calcio, dalla Repubblica popolare cinese agli Emirati Arabi, al Qatar all’Arabia Saudita – il Giappone sarebbe anche attratto da analoghe incursioni nel ricco mercato occidentale, ma per connaturata indole preferisce fare da sé e puntare semmai sull’esportazione, come la Corea del Sud e l’Iran – vadano a scovare campioni o presunti tali, nei campionati più famosi da questa e dall’altra parte dell’Atlantico. Per lo più calciatori a fine carriera la cui unica aspirazione è quella di costruirsi una fortuna economica tale da poter vivere sereni per il resto della vita, senza dover bivaccare negli studi televisivi come esperti o sulle tribune degli stadi freddi ed infuocati (dal caldo o dall’esuberanza dei tifosi) come commentatori (talvolta improbabili) o, ancora, a provare di essere in grado di allenare perlopiù tristemente squadrette di periferia o inventarsi come direttori sportivi e procuratori (professione inedita fino a qualche anno fa e inspiegabilmente redditizia da quel che si vede, dotata di esoteriche virtù riconosciute dall’universo calcistico, che indirizzano le fortune di club titolati e prestigiosi con le girandole di acquisti e cessioni che soltanto loro sono in grado di pilotare).
I campioni che vanno a giocare in Oriente per i lauti ingaggi
Chi sceglie l’Oriente lo fa – ed è addirittura banale sottolinearlo – perché ingolosito dagli strepitosi guadagni che gli vengono prospettati. A beneficio dei molti spettatori, di un merchandising stratosferico e di architetti delle economie emergenti che investono in casa e si comprano poi fuori società ricchissime o le sponsorizzano come nessuno in Occidente potrebbe fare. Oltre, naturalmente, ad alimentare il mirabolante (economicamente) mercato dei diritti televisivi dal quale i “padroni del calcio” spremono risorse per sostenere illusioni che sanno bene dureranno lo spazio di qualche anno.
Il mondo del calcio è diventato un circo miliardario dal quale scaturiscono illusioni che fanno vittime tra i più giovani, appassionati un tempo del gioco in quanto tale, inseguitori oggi, se muniti di un minimo talento, delle fortune solide che soltanto i nuovi tycoon del football possono garantire.
Non è importante chiedersi quanto durerà la pacchia. Semmai è assurdo constatare che presidenti e dirigenti calcistici occidentali si siano adattati alla consuetudine di non vedere rispettati dai giocatori i contratti liberamente dagli stessi sottoscritti. E, assecondando l’insopprimibile impulso all’avidità, sono disposti a tutto – previo compenso che finisce nelle loro tasche e relativo impoverimento della squadra, con pianti disperati quanto inutili dei tifosi – per privarsi di chi fino a poche ore prima della cessione veniva ritenuto incedibile. È fin troppo evidente che quello calcistico è il solo settore nel quale i contratti sono fatti per essere gettati via, come se nessuno li avesse stipulati. Se due o tre o quattro anni prima della scadenza, arriva al calciatore una proposta che non può proprio rifiutare (un ingaggio, diciamo da trenta milioni di euro in tre anni) come si fa a trattenerlo? Neppure incatenandolo, sembra. Mentre il modo ci sarebbe: costringerlo ad onorare l’impegno assunto e a portarlo fino in fondo; se il rendimento non dovesse essere più all’altezza, per ignavia o vendetta, lo si spedisca pure in tribuna fino all’ultimo giorno previsto, con relativa svalutazione quale ordinario effetto collaterale.
Ma questa è utopia. O meglio, appartiene a quel mondo che non esiste più e del quale il calcio è l’esemplificazione più immediata e macroscopica: il mondo fondato sulla lealtà, la fedeltà, l’appartenenza, l’identità.
Lo shopping asiatico nel mercato invernale
La globalizzazione ha trasformato una merce pregiata in una roba da accattoni miliardari (mi si perdoni l’ossimoro). I “mercati invernali”, per esempio, sono osceni. Si danno casi per cui chi a dicembre si è affrontato da avversario diventa parte del nuovo team, mentre a gennaio assume la divisa di avversario dei compagni con i quali ha condiviso spogliatoi, allenamenti e perfino divertimenti fino a poche settimane prima. È normale tutto ciò?
Meglio andarsene in Cina, si dirà. E farsi dimenticare. Già, l’oblio è la cura migliore. Poi passi chi vuole da un campo all’altro. Il calcio morirà di trasformismo e ad ucciderlo saranno i mercenari che tali non dovrebbero essere, dei quali si sa in anticipo che diventeranno merce di scambio per altre avventure o altri scopi economico-finanziari. È per questo che non ci scandalizzano le gradinate vuote degli stadi italiani, soprattutto. I tifosi vengono sempre e comunque traditi. Da chiunque, perfino dal calciatore più amato o dal presidente più scaltro. È anche – ma non soltanto – per questo che le squadre nazionali non funzionano più. Chi si dovrebbe riconoscere nella maglia di tutti, vive e gioca a latitudini dalle quali la passione comunitaria è qualcosa di inconoscibile. Oggi qui, domani là, se la nazionale dovesse chiamare si risponderà come ci si sente al momento. E poi i milioni o miliardi di euro e dollari e renminbi e riyal valgono a scacciare i rimpianti se dovessero affacciarsi.
Tra gli altri effetti collaterali della colonizzazione calcistica dell’Occidente da parte dell’Oriente vi è l’appropriazione dell’anima dei club. Una condizione insopportabile. Tanto per fare un esempio, eloquente e doloroso al tempo stesso, qualcuno capisce per quale motivo sulla maglietta dei calciatori dell’Inter i loro nomi propri devono essere scritti in cinese? È o non è una squadra italiana che milita nel campionato italiano e che appartiene alla Lega calcio italiana? Il solo fatto che la proprietà sia nelle mani di un magnate cinese, non significa che tutto sia possibile mutare, a maggior gloria di un imperialismo plutocratico che impone perfino la sua lingua sulle divise dei giocatori. Ed i giocatori che fanno? Reagiscono? Neppure per sogno. Con quel che guadagnano cosa volete che sia lo stravolgimento del nome in una lingua incomprensibile… e, oltretutto, la stragrande maggioranza non è neppure italiana. L’Italia è un luogo di transito, le mete sono le banche di mezzo mondo.
Il proprietario dell’Inter è il cinese Zhang Jindong, cinquantasei anni, fondatore e azionista di maggioranza di Suning, una delle più importanti società della Repubblica popolare che opera nel settore della vendita al dettaglio. Detiene il 100% di Suning Holdings Groups, la seconda società privata più ricca del Paese, il 65% di Suning Real Estate e il 48,1% di Suning Appliance Group. Una potenza economica e finanziaria che ha individuato nel calcio il grimaldello per crescere ben oltre il capital-comunismo cinese nell’era di Xi Jinping.
L’agenzia Hurun, specializzata nello studio dei miliardari cinesi, classifica Zhang Jindong all’85° posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo con 16 miliardi di dollari. Quotata alla Borsa di Shenzhen, Suning, che ha migliaia di dipendenti di Cina, Giappone ed in altri Paesi dell’Estremo Oriente, dal 2004, è stata la prima società di sviluppo e ricerca non americana a mettere radici a Silicon Valley e dal 2013 è proprietaria del 20% di tutto il mercato cinese dei prodotti elettronici. Tra le proprietà di Zhang Jindong c’è anche PPTV, popolare televisione online cinese che trasmette soprattutto show ed eventi sportivi in cui I’imprenditore ha investito oltre 350 milioni di euro. Nel gennaio del 2017 PPTV ha acquistato i diritti per trasmettere la Premier League in Cina nei successivi tre anni per la cifra di 564 milioni di sterline. Il 28 giugno 2016 ha rilevato il 68,55% delle quote dell’Inter diventandone così l’azionista di maggioranza. Applausi generali.
Fino a quando non abbiamo visto che Zhang Jindong non ha fatto trascrivere sulle maglie di quella che fu la gloriosa Internazionale Football Club, poi denominata Ambrosiana, nata in un’osteria milanese il 9 marzo 1908. Sfilano le ombre di Árpád Weisz, l’ebreo ungherese, campione in campo, grande allenatore, infine martire della barbarie nazista, che condusse l’Ambrosiana nella vittoria al primo titolo disputato a girone unico, di Alfredo Foni, di Giuseppe Meazza, di Silvio Piola, di Giacinto Facchetti, di Armando Picchi, di Helenio Herrera… e ad esse si sovrappongono ombre cinesi, tra le quali un fuoriclasse dei nostri giorni, va a cercare le ultime fortune, non per disamore verso la squadra che gli ha dato la gloria, il Napoli, ma perché così fan tutti: Marek Hamsik, ultimo romantico di un calcio antico che non si porta più non ha bisogno di farsi perdonare niente, men che meno il più lungo viaggio che forse non avrebbe mai voluto intraprendere, ma che ha iniziato rocambolescamente e forse, per uno scherzo del destino, si concluderà il 3 marzo, quando debutterà nel Dalian Yifang, come gli ha promesso il suo nuovo allenatore Bernd Schuster, già centrocampista del Real Madrid alla fine degli anni Ottanta e poi allenatore dei merengues. Quel giorno si disputerà la gara di ritorno tra Napoli e Juventus. Una gara presumibilmente inutile ai fini del campionato, ma significativa perchè per la prima volta in dodici anni non ci sarà Hamsik, né in campo, né in panchina. Sarà solo nel ricordo di chi lo ha apprezzato…
Il calcio è cambiato. Non c’è posto per sentimenti, forse soltanto per i risentimenti. Non ci piace come una volta. Eppure… Massì, impareremo a conoscere anche il Dalian Yifang, prima della possibile, probabile, non auspicabile colonizzazione finale del calcio europeo da parte dell’Oriente agguerrito. Il football in salsa di soia non l’abbiamo ancora capito, non lo capiremo mai. Chissà se ad Hamsik e compagnia giocante sarà comprensibile. Di sicuro se lo fanno piacere. E voi sapete perché. (dalla Rivista Contrasti)
Con tutto il rispetto per Gennaro Malgieri, trovo questo articolo e le riflessioni contenute un mix di superficialità e ovvietà un pò inquietante…
Gli stadi vuoti… il disamore dei tifosi… le esperienze cinesi di qualche calciatore… addirittura i nomi scritti in cinese sulle maglie dell’inter (Era in occasione del capodanno cinese se non sbaglio) ed il pallone che, secondo l’autore, morirà di trasformismo a causa dei trasferimenti nel mercato invernale…
Ho citato solo alcuni spunti che a mio parere trovano origine e conseguenze assolutamente distanti da quelle paventate in modo un po’ qualunquista.
Malgieri, di cui stimo l’impegno intellettuale, stavolta mi è sembrato piuttosto il ghost writer di Enrico Varriale…
Non mi dilungo oltre, per ora…
Forse è un bene, in fondo. Nel gran calcio probabilmente noi non ci saremo, se non come sede storica di Società comprate dai cinesi specialmente. Che giocheranno tornei internazionali ad invito, solo per ricchi. Ma i nostri pochi e generalmente scarsi giocatori attuali, la crisi dei vecchi valori calcistici, le identità e lealta smarrite, le degenerazioni volgari ecc., forse lasceranno il posto ad una dignitosa povertà sulla quale poter rifondare uno sport diventato mediatico e social Show Business ed oggi diventato francamente stomachevole.