Sarebbe piaciuto a Giovanni Verga il nuovo film di Edoardo De Angelis, “Il vizio della speranza”? Non credo. E’ vero, il regista napoletano sceglie, proprio come lo scrittore siciliano, i “vinti”, quali protagonisti delle sue storie; ma, diversamente dalle pagine de “I Malavoglia”, ad esempio, tanto nel film precedente “Indivisibili”, quanto in questo, fra le quinte cupe del paesaggio anche umano, alla fine si apre il varco un raggio di luce, che ricompensa di tutte le miserie e le tragedie.
Ancora una volta, come nella vicenda – pure con amaro lieto fine – delle gemelle siamesi di “Indivisibili”, la storia si svolge sullo scenario fatiscente e miserabile del litorale domiziano, nei pressi della foce del Volturno. E qui tornano in mente altri paesaggi di questa Italia degradata e colpevolmente abbandonata dallo Stato alla criminalità organizzata e a quella di necessità (per limitarci a due soli esempi cinematografici, ripensiamo alla periferia romana di “Dogman” e alla Calabria devastata dall’abusivismo de “Il ladro di bambini”).
Già nella scelta della location, c’è un j’accuse alla classe dirigente: “i pesci di questo fiume non sono buoni”, dice uno dei personaggi del film, mettendo sull’avviso le ragazze che calano in quelle acque limacciose un rozzo bilancione, e ti si profilano in mente industrie inquinanti, inettitudine di amministratori, mancanza di senso civico di cittadini. E poi lo sfacelo dei tappeti di rifiuti che assediano baracche sgangherate, di vicoli percorsi da rivoli di melma, di costruzioni che furono villini di vacanza della media borghesia napoletana e casertana e che ora, abbandonati, ospitano congreghe d’immigrati africani, dapprima gregari, e poi imprenditori della criminalità.
Al centro di questa comunità di disperati, Maria, sotto un cielo grigio oppresso da nuvole cariche di pioggia, fa la vivandiera per un drappello di disgraziate nigeriane, al tempo stesso prostitute e fattrici di bambini destinati all’abietto mercato dei neonati. La città con i suoi scorci da cartolina e con le sue strade illuminate e trafficate sembra lontana mille miglia: qui ci si sposta su barchini a motore scrostati, da una riva all’altra, da una sponda all’altra. Perfino l’abitazione della maman, una tossicodipendente matura, disincantata e ingioiellata, alla quale Maria presta la sua assistenza, appare squallida, pur nel suo arredo di lusso kitsch.
Un giorno, il tentativo di fuga di una delle disperate, prima riacchiappata da Maria – che teme di perdere il suo “lavoro” – poi aiutata ad allontanarsi, con l’aiuto di un prete che non vedremo, innesca un processo di ravvedimento nella protagonista; ravvedimento iniziato, con ogni probabilità, nel momento della scoperta di esser rimasta incinta, di chissà quale padre.
Il tragico e l’ineluttabile sembrano spalancarsi di fronte a Maria, in una sorta di “via crucis” degli ultimi: la visita dal medico che già ne curò ferite di un antico pestaggio e che, nel caso decidesse di continuare la gravidanza, la farebbero andare incontro a morte certa; la morte dell’amata cagna per il morso di un serpe velenoso, durante l’iniziale tentativo di fuga (ma qui non siamo nell’Eden, bensì in un inferno terragno di sterpaglie e immondizia); le minacce della padrona dei loschi traffici.
Uno spiraglio di luce le viene dall’incontro con l’unico personaggio maschile – dottore a parte – di quella fauna derelitta: un ex giostraio che vive sul fiume e che ebbe un ruolo nella sua infanzia. Per Maria sarà proprio un ritorno a quell’età dell’innocenza, quel giro sull’ultima giostra rimasta, capace di strapparle, finalmente, un sorriso.
L’esito della vicenda però non sarà tragico, come le premesse e le attese dello spettatore: al momento del parto, ormai sola, Maria, dopo aver deluso la madre svampita e timorosa, la padrona e lo stesso medico, sola ma col povero giostraio segnato dagli anni e, come lei, dalla vita, diventa protagonista del miracolo. Forse anche per la rabbiosa preghiera dell’uomo, il bambino nascerà, e una mano misteriosa e tenera che riattizzerà il fuoco nella stufa e rimboccherà la coperta lacera della puerpera e del suo piccolo, accanto all’uomo dormiente ricomporrà il quadro della Sacra Famiglia. Così, al mattino, davanti al mare grigio e spumeggiante, Maria potrà dire al figlio: “Ecco, vedi, questa è la vita”, e sarà il primo, fondamentale suo insegnamento di madre.