Nel vuoto ricolmo di chiacchiere che periodicamente viene imposto, per lasciare spazio alla Nazionale, a quelli che, come me e Barbadillo, amano il calcio e il campionato per squadre di club, c’è la possibilità di svolgere qualche considerazione meno superficiale e più pacata, rispetto alle pulsioni del tifo.
Per esempio, durante le soste si parla molto di mercato, e dunque di soldi, ed emerge il peso che questo fattore – il denaro, appunto – ha acquisito anche nel mondo del calcio. Il denaro “sterco del diavolo”, ammonivano i predicatori medievali, riprendendo il motto delle Scritture sul tema “servire Mammona”. I quattrini non hanno mai avuto buona stampa, specie fra poeti e scrittori (basti ricordare il Pound di “Lavoro e Usura”), ma gli altri comuni mortali, di fatto, hanno eretto il Vitello d’oro a oggetto di culto, a volte nei meandri della coscienza, altre volte nei pubblici riti, specialmente in quelli della politica.
Il calcio per un periodo non breve ne è stato esente: ricordo che il centravanti di un Napoli preistorico, Attila Sallustro, ebbe il permesso del padre per svolgere quell’attività bizzarra, a patto che non percepisse compensi. Ricordo la frugalità di un calcio nemmeno troppo lontano nel tempo, quando il capitano della Roma e della Nazionale, Giacomo Losi, poteva permettersi tutt’al più di aprire un bar nella sua città, e per altri, assurti ai fasti della serie A, era già un obiettivo importante l’acquisto della prima casa e magari di qualche negozio, per costituirsi rendite aggiuntive per la vecchiaia. Il confronto con l’orologio da 2 milioni di euro sfoggiato da CR7 o la ribalta delle cronache per le collezioni di lussuose auto sportive di questo o quel campione è stridente.
Una delle prime conseguenze di questo cambiamento, oltre a quelle portate nel lessico sportivo – di tifosi e addetti ai lavori – si sviluppa sul terreno dell’educazione o, se volete, dell’esempio. Successo e, quindi, denaro e, ovviamente, belle donne, sono da sempre il motore principale dell’agire umano, ma oggi l’energia che ne sprigiona non ha correttivi né freni. Genitori scalmanati ai bordi dei campi delle scuole di calcio, pronti a incitare i figlioletti perfino ai falli più cattivi, in vista di lucrose, possibili svolte anche familiari, non fanno più notizia; perfino sul piano dell’immagine, questi stessi genitori assecondano bambini che ostentano codini, creste, tatuaggi copiati dai loro beniamini. Beh, le foto dei calciatori d’antan – i Bacigalupo, i Maroso, i Bugatti, ma anche i Mazzola e i Rivera – mostravano volti di uomini veri, che conoscevano la fatica e coltivavano lo spirito di sacrificio e la lealtà non solo nello sport, al riparo da telecamere e stampa pettegola.
Dicevamo del lessico. Nei bar – e nelle radio private – oggi si discute più di bilanci, di fatturati, di plusvalenze, di fair play finanziario, di aumenti di capitale, di quotazioni in borsa, di trading di calciatori, che non di assist e traversoni, di dribbling e di goal. Le sempre più sofisticate clausole contrattuali e le nuove figure professionali avvicinano sempre di più la compravendita di calciatori alle operazioni di fusione per incorporazione di aziende, laddove gli atleti sono paragonabili a imprese, con tanto di dipendenti, diritti d’immagine, consulenti nei più disparati rami.
Tutto questo, in un turbine di denaro, le cui fonti principali sono tv e pubblicità, peraltro strettamente legate fra loro; ormai marginali sono invece gli incassi da stadio e, in linea di massima e tranne eccezioni, gli apporti dei soci (sono addirittura scomparsi i presidenti-mecenati o, se preferite, quelli che vennero bollati come “ricchi scemi”). Ne deriva che a comandare, come sempre, è chi tiene i cordoni della borsa, cioè televisioni e pubblicitari; e qui veniamo agli ulteriori stravolgimenti di quello che fu lo svago della domenica pomeriggio e che oggi ha un calendario caleidoscopico, in funzione, appunto, delle esigenze televisive. I maschi della famiglia si dividevano: alcuni, dopo la Messa, andavano allo stadio; altri, dopo il ragù o l’ossobuco, si radunavano intorno alla radio o alla tv, per ascoltare Nicolò Carosio prima, Nando Martellini e via via degli altri, da Pizzul a Ciotti a Valenti e Galeazzi, poi, da “Tutto il calcio minuto per minuto” a “90° minuto”.
Oggi la giornata calcistica viene “spalmata” e teletrasmessa su tutta la settimana e a tutte le ore, partendo dal lunch match fino alle brume della sera, in uno spezzatino che mescola campionato, coppe ed eventuali recuperi delle partite sospese per il maltempo. Naturalmente, non mancano le complicazioni, per così dire, “geopolitiche”, che costringono gli appassionati “foot ball-dipendenti” agli orari più strani, dettati dai fusi orari e dall’esigenza di dare spazio a paesi politicamente e finanziariamente potenti e lontani (dagli Emirati Arabi al Brasile, dalla Russia al Sudafrica).
Addio, insomma, ai ludi parabellici cittadini e di campanile, ai pomeriggi di sole o di pioggia, al mistero delle partite non viste ma raccontate (qualcuno fra i meno giovani ricorderà il quasi-goal di Carosio), al sacrificio di restare in campo pur se infortunati, perché i regolamenti non prevedevano sostituzioni (e magari ci scappava “il goal dello zoppo”)… Fra l’altro, in tutte le squadre maggiori è ormai mosca bianca il campioncino di casa o il “calciatore-bandiera”: la “legione straniera”, nel nome dapprima della finzione degli oriundi, poi della comune patria europea e poi del diritto di uguaglianza del prestatore d’opera extracomunitario (e di tutte le connesse transazioni, intermediazioni, speculazioni legate anche a “bidoni” d’oltreoceano) si è ingrossata fino a lasciare alla Nazionale il compito di valorizzare i giovani nostrani. E non parliamo dei trasferimenti continui, anche in costanza di campionato (alla faccia della fedeltà alla maglia…).
Che dire? La banalità dei tempi che cambiano? O l’altra che il calcio è espressione dei tempi? A questo proposito, il mondo del pallone ha fatto propria una deplorevole tendenza della globalizzazione, caratterizzata, fra l’altro, dall’incremento esponenziale delle disuguaglianze: in quel mondo, gratificato, come abbiamo visto, da un diluvio di denaro, a beneficiarne sono soltanto in pochi; la maggior parte dei praticanti, infatti, continua a calcare i campetti per pochi spiccioli, se non addirittura gratis. Di più: il gigantesco movimento di capitali crea sproporzioni anche nei singoli campionati, se è vero che ognuno di essi è dominato – da anni e per chissà quanti anni ancora – da una o due squadre al massimo, in un trend che rischia, a gioco lungo, di togliere interesse a quella che, come ogni attività agonistica, vive anche sull’incertezza della vittoria. Senza contare – tanto per dire un’altra banalità – che con i quattrini necessari a comprare magari una promessa mancata o un atleta sul viale del tramonto (e non parliamo dei fuoriclasse più celebrati!) si potrebbero costruire ospedali, scuole, strade e risolvere i problemi, non solo di bilancio, di tanti paesi (anche del nostro). Ebbene, quella montagna di denaro resta all’interno del comparto, con l’ovvia eccezione dei flussi fiscali. Ma finché la giostra gira, i fortunati sgomitano per salirci e goderne. Quanto durerà?