“[…] Il Governo è il Rapporto delle libertà e degli interessi. E data questa prima proposizione ne deriva: che ormai la politica e l’economia si confondono; che affinché vi sia rapporto di interessi, bisogna che gli interessi stessi siano presenti, rispondenti, stipulanti, obbligantesi e agenti; che così la ragione sociale e il suo vivente emblema sono una sola e identica cosa; in ultima analisi, che essendo tutto governo, non vi è più governo. La negazione del governo viene fuori così dalla sua definizione: chi dice governo rappresentativo, dice rapporto di interessi; chi dice rapporto di interessi, dice assenza di governo […]”
Riprendendo quello che scrisse Pierre-Joseph Proudhon nel suo La révolution sociale démontrée par le coup d’état du 2 décembre, si apre davanti a noi un capitolo buio della Storia politica italiana ed europea. Ma negli ultimi anni, sembrano cambiate totalmente le coordinate politiche. La destra come la sinistra fa sempre più fatica ad attirare elettori e mantenere un consenso. Entrambe, sono le prime a non essersi accorte che qualcosa è cambiato. L’ordine stabilito, l’alternanza del bipolarismo con le sue idee social-democratiche e liberal-economiche, è in crisi dappertutto. Il riemergere del «populismo» e del «sovranismo» in Europa, sembra aver ha accelerato questo processo.
La politica ha cambiato volto ma nella sua interezza, non è ancora immune dalle vecchie logiche. Certo, lo è un po’ meno di prima. Notiamo però, persino nel nuovo che avanza, dei residui che ci indicano tutt’altro. Facciamo un passo alla volta. Innanzitutto, è in crisi l’immaginario della società post-moderna e con lei, tutta una mentalità che ha permeato la politica degli anni ottanta e novanta, espandendosi, soprattutto in Occidente. Una «Mentalità della sopravvivenza», così l’ha definita Christopher Lasch, studiandola minuziosamente. In breve, era una eredità degli anni della guerra fredda che intaccò in special modo la fine degli anni ottanta fino alla metà degli anni novanta, e di un clima contrapposto ma speculare tra i due blocchi, ampiamente sfruttato dal Capitalismo.
Ricorderete lo spauracchio atomico, i programmi televisivi e le pubblicità che ruotavano intorno all’elemento della sopravvivenza. Oppure, nell’ambito culturale e cinematografico, “I sopravvissuti” di John Patterson, “Fuga da New York” di John Carpenter, un filone che continua marginalmente anche oggi. Prendendo, ad esempio nella letteratura, dei titoli inequivocabili come “Prepping. Come prepararsi alle catastrofi metropolitane” della Hoepli, “Tecniche di sopravvivenza. Survival in ogni parte del mondo, in tutte le condizioni ambientali e climatiche” di Alexander Stilwell, e potremmo continuare all’infinito.
Questa «normalizzazione della crisi» e dei dibattiti della popolazione che in politica hanno avuto il loro apogeo dopo gli anni settanta, nella frase tipica “è una questione di vita o di morte” (invitiamo a leggere ancora Christopher Lasch nel suo “L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti”), è diventata una mentalità dell’emergenza che in politica, senza ora scomodare l’ambito culturale, ha proliferato ampiamente. Prova ne sono, senza capirci molto delle ragioni, gli slogan berlusconiani che indicano «l’emergenza povertà è tra gli italiani», «l’emergenza democrazia», parlando delle sue sventure processuali. A sinistra invece, ha la meglio «l’emergenza razzismo, fascismo e populismo», impacchettata anche dagli operatori dell’ONU. L’ammonimento di questi ultimi giorni e l’ipotetica ispezione in Italia ha fatto ridere tutto lo “Stivale”.
Questa concentrazione emergenziale, che indubbiamente ha capovolto il paradigma del sopravvivere ad un qualcosa che in realtà, è stato spazzato via dallo studio della «Fenomenologia dell’immaginario» che va ben oltre lo sradicamento, la solitudine, l’alienazione di un mondo organizzato da altri e la riscoperta della comunità, tracciati da Michel Maffessoli. Sintetizzando, anche perché il libro è molto interessante e si presta ad un ampliamento delle argomentazioni. Visto poi che sono sorte delle nuove problematiche cui la politica da sola, non può dar risposta. Principalmente, perché ostaggio dell’espertologia e degli assunti del riformismo amministrativo in un insieme che, con tutte le differenze del caso, dovrebbe escluderli a priori. In oltre, la competitività ed il valore delle competenze, indietreggiano davanti all’obbligo di dare soluzioni che esulano dallo schema dell’emergenza, della democrazia e della politica a consumo.
Insomma, parlando di politica, e in specifico del liberalismo politico, le prerogative dell’individuo operoso e della libertà che ne deriva per accrescere il proprio benessere, destabilizzando la natura per i propri fini in nome di un progresso emancipatore di tutta l’umanità – teorizzati da Adam Smith – sono state soppiantate dalla più “agevole” pubblicizzazione di sé stessi. In politica, è evidente nei partiti con i loro uomini immagine e nella burocratizzazione gestionale. Nella scelta della rappresentatività adottata a destra come a sinistra, dei singoli calati dall’alto per mezzo della cooptazione che ha ridotto la partecipazione attiva della gente, a semplice annuire a cose fatte, continuando a creare danni irreparabili. Basta pensare alle scelte “casuali” delle poltrone a Bruxelles, come a quelle che siedono nei parlamenti degli Stati membri. Per usare un eufemismo, paragonando il tutto al celebre clientelismo dell’apparato, quest’ultimo pare una formica sotto una lente d’ingrandimento!
Le nuove compagini che tanto hanno irritato tutta la politica del XX Secolo, si discostano dalla proceduralità degli studi sugli accertamenti e sul dominio dell’opinione pubblica (solo apparentemente, ben inteso). E per gli italiani, le indagini di mercato, le elaborazioni sull’elettorato, le opinioni e le manipolazioni delle informazioni createsi con anni di esercizio del management nelle televisioni pubbliche, private e nei quotidiani, trovano sempre meno appeal. È una delle caratteristiche, percepite dalla popolazione, come fosse la continuazione delle tecniche di sperimentazione di mercato, applicate alla politica in egual misura dalla destra e dalla sinistra. Ad emergere, per la stragrande maggioranza degli italiani ma anche per gli europei, è una distopia a dir poco imbarazzante: ovvero, l’immagine nitida di questa società profondamente indesiderabile e spaventosa, proiettata nel cuore della politica.
È molto chiaro, quanto certi assunti siano di massima importanza per le compagini “classiche” della partitocrazia e del parlamentarismo. Le quali, sono ormai assoggettate ad un tipo di professionismo (il concetto di lavoro è differente) da reclutamento, simile alle agenzie di selezione del personale sulle tematiche politiche da adottare senza dare soluzione e scoraggiando l’autonomia di pensiero. Il populismo/sovranismo, ambisce a destrutturare questa standardizzazione. Anteponendo un concetto verticale, dal basso verso l’alto, a quello orizzontale di livellamento della politica attuale. Ci riusciranno? E ancora presto per dirlo. Ma nella peggiore delle ipotesi per loro, hanno dimostrato che qualcos’altro è possibile.
Pur essendo un momento storico di breve o lunga durata, la “politica” dei pubblicitari e dei copywriter, dalla rettitudine moralizzatrice e dal super-io che nasconde un’ascesa sociale utilizzando la politica come strumento, quale fosse un parafulmine personalizzato, sembra avere i giorni contati. Ma dal dire al fare, per vedere cambiare l’Italia e questa Europa di tecnocrati, ne deve ancora passare di acqua sotto i ponti. Un inizio è meglio che niente ed è evidente che molti, cominciano a rispedire al mittente, le targhette riconoscitive che il «Pensiero Unico», affibbia ad ognuno di noi. Criticandolo a partire dalle sue basi. Possibilmente, ritrovando una nuova moralità suggeritaci da Jung che contempla anche la sfera politica, lontana parente di questo scempio.