Una lettura orientata a far emergere la complessità politica, sociale ed economica, respingendo l’appiattimento sulla sola dimensione della violenza, è un approccio legittimo e condivisibile allo studio della stagione degli anni di piombo.
Muovendo da tale premessa, la monografia “Come pesci nell’acqua – Le Brigate rosse e i contesti della violenza politica”, edita dalla casa editrice Viella nel 2022 e curata da Chiara Dogliotti, ricercatrice presso l’Istituto ligure per la storia della Resistenza e della società contemporanea, offre spunti interessanti ma non sempre lineari ed efficaci.
Come pesci nell’acqua
Partendo dalla ricostruzione dei rapporti tra il PCI e la sinistra extra-parlamentare e dal rifiuto degli opposti estremismi che li inquadrano nell’ottica della contrapposizione secca tra l’assoluta estraneità e lo stretto legame, l’autrice identifica nella “pervasività del paradigma vittimario” un elemento ancora oggi prevalente e dannoso nel dibattito su quel periodo tormentato, ma a ben vedere scivoloso e soggetto a strumentalizzazioni di sorta se non maneggiato con cura.
L’opportunità di distinguere il terrorismo – termine respinto dalle Brigate rosse, pronte sin dalle prime “riflessioni” teoriche a rovesciarlo sul sistema che dichiaravano di combattere – dalla lotta armata induce il lettore a soffermarsi sulle affinità dei nuovi combattenti con i guerriglieri Tupamaros dell’Uruguay, sulla fascinazione per “l’eloquenza del gesto” e sulla presunta emersione del problema etico dell’uso della violenza.
Sotto quest’ultimo aspetto non è significativa solo la sopravvalutazione di casi singoli. Le tappe cruciali vengono indicate a ragione nella profonda cesura che si consumò intorno alla metà degli anni settanta, quando all’interno delle Brigate rosse la fase del rovesciamento delle istituzioni democratiche venne progressivamente sostituita da quella della militarizzazione e dello scontro con lo Stato.
Nonostante il consolidarsi di una vasta area di fiancheggiamento ramificata nei mondi studentesco, del lavoro precario e delle carceri ma soprattutto tra gli operai nelle fabbriche delle grandi città del nord, l’obiettivo della mobilitazione del soggetto rivoluzionario per eccellenza fallì.
La tesi che costituisce il nucleo centrale del libro, vale a dire l’applicabilità alla tematica in questione di una famosa massima di Mao Tse-Tung che associa i guerriglieri comunisti in grado di mimetizzarsi tra il popolo ai pesci a proprio agio nell’acqua, viene liquidata malgrado il suo ricorrente utilizzo all’epoca nei più disparati ambienti. Fu ripresa, infatti, sia dal generale Dalla Chiesa per deplorare la mancata attuazione di ulteriori provvedimenti repressivi dopo il caso Moro, sia dagli autonomi per rivendicare il proprio ruolo di coordinamento della violenza proletaria.
Il prototipo del brigatista diventa così il riflesso di un individuo pericoloso e al tempo stesso vulnerabile, parte di un’organizzazione gerarchica, compartimentata e clandestina che annullò la personalità dei singoli nel collettivo, capace di sopravvivere grazie alla separazione dalla realtà.
I cenni ai rapporti tra le masse e le avanguardie e a elle divergenze di vedute con i gruppi extra-parlamentari si uniscono alla rivisitazione delle vicende di Potere operaio – compresa la scissione del 1973 tra la corrente movimentista di Scalzone e Piperno e quella di Toni Negri, desiderosa di strutturarsi alla stregua di un partito – e di Lotta continua.
Spiccano, peraltro, alcune contraddizioni perché se si riconoscono gli orientamenti principali del movimento di contestazione nell’operaismo e nell’anti-autoritarismo, si afferma poi che esso fu parte integrante di una galassia contrassegnata dal marcato settarismo e dal rifiuto della democrazia rappresentativa. In mezzo al ribellismo peculiare delle mobilitazioni collettive (“confuso, velleitario e inutilmente aggressivo”), trova spazio l’idea che frange radicalizzate dell’autonomia praticarono la lotta armata intrattenendo legami continuativi con le Brigate rosse, finendo per diventare suoi satelliti.
Due casi opposti: il Veneto e Genova
Le differenze tra le varie articolazioni territoriali fungono da premessa all’approfondimento sull’organizzazione delle colonne. In particolare, vengono descritte le due unità veneta e genovese, la loro composizione sociale, i punti di forza, gli elementi di lacerazione e i tratti discontinuità.
Nel primo caso, contraddistinto dall’ingombrante presenza di Potere operaio e dell’autonomia e da interazioni conflittuali ma costanti con alcuni settori della sinistra rivoluzionaria, la diffusione policentrica di covi e nuclei, specchio di una molteplicità di centri abitati medio-grandi, prelude all’enucleazione di due formazioni in altrettanti periodi distinti.
Il radicamento tra i lavoratori delle istituzioni del movimento operaio e la fedeltà all’impostazione di Mario Moretti e del Comitato esecutivo sono le peculiarità del secondo caso: a Genova le Brigate rosse, chiuse e dotate di scarse capacità di elaborazione politica, si distinsero per l’alto livello offensivo delle azioni e per l’efficiente gestione delle armi sotto l’aspetto logistico.
La comparazione tra le due realtà è arricchita dal confronto tra i “cattivi maestri” Toni Negri e Enrico Fenzi: la fama del primo, che catalizzò intorno a sé gran parte delle responsabilità della manipolazione di giovani, studenti e operai, venne parzialmente confermata dal diretto interessato quando dichiarò che la propria elaborazione teorica non fosse priva di effetti pratici. Nonostante la statura intellettuale, il secondo viene ricordato in qualità di bravo soldato ligio ai doveri imposti dall’organizzazione nella partecipazione con ruoli di copertura ad azioni armate.
Conclusioni
Nell’excursus finalizzato a confutare la matrice neo-resistenziale della strategia dei brigatisti, Dogliotti attinge a piene mani alle testimonianze di persone coinvolte nelle vicende narrate; pur attribuendo a quel mito un ruolo di primo piano nella formazione dei militanti, questi ultimi imbracciarono le armi in un contesto neppure minimamente paragonabile alla situazione di caos e incertezza istituzionale in cui era precipitata l’Italia all’indomani dell’armistizio del 1943.
L’impressione però che il dovere dello storico di “fare la tara” del contenuto delle fonti dirette venga, talvolta, meno pare confermata non solo nel momento in cui si accreditano con troppa indulgenza ricostruzioni che millantano una presunta dimensione morale dei terroristi.
L’autrice, peraltro, condivide da un lato l’opinione in base alla quale le istituzioni democratiche si ritrovarono sotto il fuoco concentrico di pratiche violente, del fanatismo ideologico e di miopi concezioni del mondo; dall’altro sostiene con convinzione l’immagine del muto pesce terrorista che visse in un ambiente fondamentalmente estraneo a quello del lungo ‘68 – stagione di fermenti collettivi che contribuì ai significativi mutamenti dei costumi e della società civile, non certo a sostanziare la democrazia attraverso l’assemblearismo come si legge nelle ultime pagine – aderendo a una visione un po’ edulcorata dei fatti di quegli anni.