Chi ce l’ha se lo tiene stretto, chi ne è privo cerca in ogni modo di ottenerlo, anche a condizioni disumane. La Costituzione lo elegge a fondamento della Repubblica, l’agenda politica nazionale lo colloca sempre in cima alla lista delle priorità e nelle piazze lo si invoca a gran voce. Il lavoro, di fatto, è uno degli ultimi totem, sacri ed inviolabili, della modernità. E il Primo Maggio, Festa del lavoro, è il conseguente tributo a quello che è universalmente ritenuto un valore. Eppure, “il sogno dell’uomo è sempre stato quello di vivere senza lavorare. Almeno finché ha avuto la testa. Oggi l’abbiamo persa del tutto e celebriamo allegramente la festa della nostra schiavitù”. A ricordarlo è Massimo Fini, giornalista di lungo corso, affermata voce del pensiero antimoderno fin dall’apparire del suo “La ragione aveva torto?” (1985), il primo di una nutritissima serie di fortunati saggi di cui l’ultimo, “La Guerra Democratica” (Chiarelettere, pp. 289, euro 14,90), è da pochi giorni approdato in libreria. Nel tempo, Fini ha spietatamente bersagliato tutti i capisaldi del vivere contemporaneo: la democrazia rappresentativa, la scienza, la tecnica, il mercato e, naturalmente, anche il lavoro, anticipando di molto le riflessioni di una certa letteratura anti-lavorista che ultimamente si sta affermando in Francia e Germania.
Massimo Fini, perché definisce il Primo Maggio ‘La festa della nostra schiavitù’?
“Nelle società preindustriali il lavoro non era affatto un valore. Il nobile era, per definizione, colui che non lavorava. Ed anche i contadini e gli artigiani lavoravano lo stretto necessario per la sussistenza. Il resto era vita. Con la Rivoluzione industriale la prospettiva cambia. Il lavoro diventa valore così come oggi sostengono sia i liberal-liberisti, sia i marxisti. Per Marx, addirittura, il lavoro è l’essenza del valore. Ma c’è di più. Prima il contadino lavorava sul suo e del suo. Oggi noi non lavoriamo più sul nostro. Siamo, come affermava Nietzsche, degli schiavi salariati. E mi ha sempre fatto sorridere il fatto che il Primo Maggio si festeggi tale condizione”.
Cosa comporta vivere in una società ossessionata dal lavoro?
“Di fatto nessuno è felice. Giova ricordare che la Rivoluzione industriale spalancò le porte all’avvento dell’alcolismo di massa. La depressione e le nevrosi di ogni tipo sono malattie tipiche della modernità. E lo stress è ormai una condizione standard. Se ci sobbarchiamo tutto questo è per aver accesso ad una serie di beni e servizi che valutiamo come irrinunciabili. Ma qualcuno che ha avuto una certa influenza sulla cultura occidentale ha detto: ‘Non di solo pane vive l’uomo’. E invece l’uomo si è appiattito su una dimensione puramente materiale in cui tutto si esaurisce tristemente nel tentativo di passare da una Panda a una Porsche”.
Se il lavoro non è un valore, cosa lo è?
“Il vero valore della vita è il tempo. Questo è un concetto fondamentale che si è perso. I meridionali invidiano il Nord dove si lavora tredici ore al giorno, dove nessuno è sereno e dove ci si ammazza se l’azienda chiude a causa della crisi. È drammatico, ma inevitabile quando si fa coincidere il lavoro con l’esistenza. Caduto il primo, cade anche la seconda perché improvvisamente tutto si svuota di senso”.
Così ragionando, si può affermare che il disoccupato è un uomo ricco…
“Nelle società sviluppate i disoccupati hanno spesso la possibilità di nutrirsi, vestirsi, abitare una casa, seppur modestamente. E possiedono la cosa più importante, quella che gli altri, coloro che lavorano, non hanno: il tempo, appunto. Paradossalmente, sono loro i veri ricchi. Basterebbe operare una inversione concettuale per rendersene conto. Ma la società dell’opulenza offende e umilia coloro che non lavorano, facendoli sentire dei parassiti, dei poveracci. E costringendoli, così, a tentare di rientrare nel mercato del lavoro a tutti i costi”.
*intervista pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno”