Quasi trent’anni di carriera alle spalle. Partito dai locali notturni di Genova, Francesco Baccini ha conosciuto l’apice del successo e le sue zone d’ombra. Alcuni brani, come Le donne di Modena e Ho voglia di innamorarmi, sono divenuti, per dirla con Renzo Arbore, quel tipo di canzoni che “poi però le cantano un po’ un po’ tutti”. Quel che colpisce maggiormente di Baccini, tuttavia, è la sua integrità artistica. Non cerca di uniformarsi, non insegue il mercato, rifiuta di appiattirsi sul paradigma radiofonico imperante. I suoi testi sono un inconsueto mix di ironia mordace e tenerezza di un animo malinconico e fragile. La sua musica è il risultato di influenze provenienti dagli ambiti melodici più disparati. Il tutto magistralmente amalgamato dalle dita di quello che è, contrariamente a molti suoi colleghi, un vero musicista.
Purtroppo tanti giovani e meno giovani ne ignorano la produzione, instupiditi dalle centinaia di meteore gravitanti ogni anno intorno ai vari talent. La decisione di intervistarlo nasce proprio dalla volontà di far conoscere, a chi se lo fosse per varie ragioni perso, un cantautore, forse l’ultimo a non essere ancora in età pensionabile, che vale veramente la pena ascoltare. Per gli appassionati di letteratura che seguono questa rubrica, poi, è d’obbligo far presente che a Baccini, al Festival Internazionale di Poesia di Rocca Imperiale, è stata dedicata una stele che, di anno in anno, viene riconosciuta per il particolare valore letterario di un testo poetico o cantautorale.
Francesco Baccini, come nasce la tua passione per la musica?
“La verità è che non ricordo la mia vita prima della musica. Con il piano cominciai prestissimo, a sei anni. Fino ai quindici, però, non sapevo neanche cosa fosse la musica popolare. Ascoltavo solo classica. Anche perché, in quegli anni, chi studiava quel tipo di musica era alla stregua di un integralista islamico: ascoltava solo quel genere, gli altri non erano ammessi. Il jazz, il blues, e il rock iniziai a sentirli di nascosto, per spirito di opposizione. Ma presi a suonare musica, per come la faccio oggi, solo nell’adolescenza, a seguito di alcuni violenti attacchi di panico. Era il principio degli anni ottanta. A quei tempi nessuno conosceva bene il fenomeno, oggi invece diffusissimo e molto studiato. Per me era una sorta di terapia: suonavo il piano e, nel mentre, urlavo. Quei suoni inarticolati pian piano cominciarono a mutarsi in un canto e così scoprii di avere una voce. Prima di allora non avevo mai cantato, solo suonato. Ero anche molto timido e non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello di farlo al cospetto di un pubblico. Fu solo dopo un po’ di tempo che iniziai a esibirmi.
A Genova, dove vivevo, c’era un locale in cui, nella sala, stazionava un pianoforte. Era libero, a disposizione degli avventori. Non so perché, ma andare lì a suonare, per delle ore, mi aiutava a tenere a bada il mio male. Dal proprietario, però, pretesi di non essere pagato. Altrimenti sarebbe diventato un lavoro e non volevo. Per me era, appunto, una semplice terapia. Considera, rispetto a questo mio rapporto particolarissimo con la musica, che venivo da un’infanzia piuttosto tormentata. Ho avuto la fortuna di conoscere la solitudine fin da ragazzino. A tredici anni una malattia mi costrinse a letto per un anno. Nessuno dei miei amici mi veniva mai a trovare, pensando che avessi qualcosa di grave e contagioso. Passavo le mie giornate da solo. Vedevo unicamente mia nonna e mia madre. L’unica cosa che potevo fare era leggere e ascoltare musica da un giradischi. Si sa, quando stai molto isolato, cominci a fare i conti con te stesso. È stato allora che ho conosciuto la sofferenza e ho imparato a stare da solo e a divertirmi senza gli altri. In più, appena mi sono rimesso in piedi io, è morto mio padre.
Ma torniamo a Genova e alle mie prime esibizioni. Data la mia formazione così eclettica, non facevo il solito pianobar con pezzi a richiesta. Suonavo quello che mi piaceva. Solo che, dopo un po’, iniziai ad annoiarmi a portare sul palco sempre e solo pezzi altrui, e cominciai per gioco a comporre canzoni e a presentarle dal vivo. Erano molto diverse dai soliti pezzi italiani e la gente mi guardava sbigottita, ma mi apprezzavano. Non che pensassi di fare il cantante, ma a un certo momento lo divenni. Ricordo ancora che mia madre, decisamente incredula, mi chiese se volessi fare il cantante nella vita”.
Quando ti sei trovato tra le mani i brani del tuo primo disco e come sei arrivato a pubblicarlo?
“Quando sono arrivato a pubblicare il primo, sostanzialmente, avevo già pronti anche i due successivi. Avevo circa 22 anni. Mi ero iscritto all’università, ma era una situazione che non mi piaceva. Non sapevo bene cosa fare. Avevo anche un lavoro al porto di Genova, con il quale mantenevo mia madre e mia sorella, visto che mio padre era morto. Ero, per così dire, l’uomo di casa.
Il lavoro non mi piaceva, almeno non quel tipo, ed ero persuaso di voler fare altro. La mattina andavo comunque al porto e di notte a suonare per locali. Di conseguenza, ero distrutto, non dormivo mai. A un certo punto compresi che, stando a Genova, non avrei concluso alcunché: il mondo musicale e le case discografiche avevano tutte sede a Milano. Quindi, mi spostai a vivere lì e cominciai a prendere appuntamenti, sorte di provini, con i direttori artistici – non c’era mica X Factor a quei tempi. Andavi nello studio di uno di loro, dove di solito stava un pianoforte, e quelli ti ascoltavano. In particolare, io fui notato da Mara Maionchi della Fonit Cetra. Mara riconobbe da subito il talento, ma non sapeva come convogliarlo, essendo le mie canzoni molto atipiche rispetto al commerciale di allora. Lei infatti mi diceva: “Sai, purtroppo l’ironia non vende”. Cercai di normalizzarmi, ma non ci riuscii, era più forte di me. Mi misero a fianco un produttore il quale addirittura pretese che non suonassi più il piano, perché secondo lui non andavo a tempo con il metronomo. Ma il piano non è uno strumento ritmico. Io, soprattutto suonando da solista, cambio anche quattro tempi in una sola canzone. A ogni modo, non volevo essere così. Avevo un’immagine assolutamente romantica della musica, mentre andavo a scontrarmi con l’industria discografica.
Infine, tra sbattimenti e tribolazioni, riuscii comunque a pubblicare il primo disco, Cartoons, come volevo effettivamente che suonasse. Era il 1989 e il disco vinse la Targa Tenco come Opera Prima. Con stupore dei discografici, riuscii anche a realizzare delle buone vendite. Non si spiegavano il perché. Già allora, volevano etichettare tutto, incasellare, e io non rientravo in nessuna delle loro categorie. Il fatto che vendessi, quindi, li lasciò di stucco. Non avevano compreso che, in realtà, i veri artisti sono proprio quelli che non risultano etichettabili. Purtroppo, dal punto di vista del marketing è sempre così: se una cosa funziona cercano di farne altre venti simili, come per le macchine. Al contrario, fino ai ’70 era diverso, ogni fenomeno musicale era a sé stante e immediatamente distinguibile. Per intenderci, non potevi confondere Bennato con Battiato. Poi, dalle radio soprattutto, è nato questo fenomeno dell’omologazione. Un genere radiofonico – che chissà poi cosa sarà –, ma in cui non distingui più chi canta e i suoni e i tempi sono identici in ogni canzone”.
Quali sono state le tue principali influenze musicali?
“Dalla classica, al jazz, al blues. Anche se io non considero la musica per generi, ma la considero in sé. Springsteen che suona la chitarra, acustica o elettrica che sia, non è che faccia proprio rock, fa Springsteen. Come al solito, il voler incasellare corrisponde all’esercitare una violenza.
Poi ci sono i cantautori, neanche a dirlo genovesi, come Tenco e De André. E lì mi piace considerare, a livello proprio di poetica, la differenza tra i due: Tenco canta in prima persona, mentre De André no, perché è un cantore di storie. È grazie a loro due che ho capito che il testo ha un ruolo pregnante nella canzone, fino a divenirne la parte fondamentale. Il cantautorato è un fenomeno interessante che arriva dalla Francia e sbarca a Genova. Si differenzia da quello dei semplici interpreti che andavano prima. Per certi autori, addirittura, la musica diventa un sottofondo. Poi, ci sono cantautori più o meno musicisti. Per es., Dalla era più musicista, Guccini il contrario. De André era come Guccini, ma rispetto a lui sapeva cercarsi ottimi collaboratori, da Bubola a Piovani.
Ecco, De André è stata una delle mie massime influenze. Ebbi anche la fortuna di collaborare con lui in due occasioni. La prima quando mi venne a cercare per Ottocento, una sua canzone contenuta in Le Nuvole. La seconda quando gli chiesi di cantare con me Genova Blues“.
Tra le letture che hai fatto, esiste un romanziere o poeta in particolare che ti abbia influenzato?
“Sicuramente Italo Calvino, perché dà grande spazio alla fantasia, a mondi inesistenti che lui racconta in modo molto moderno e facilmente fruibile”.
Cosa fa un cantante, durante la giornata, quando non suona? Buona parte della vita di un artista non è forse aspettare l’arrivo dell’ispirazione?
(ride) “Ah, io aspetto solo quella, altrimenti avrei scelto un lavoro normale! Non sono uno che sta ore a suonare sperando che mi venga qualcosa. Io aspetto”.
I fan, le interviste, la preparazione dei tour, l’essere riconosciuti per strada… Ti piace davvero?
“Proprio per niente! Quando la mia popolarità era al suo massimo, ero addirittura spaventato. Il mio ideale è fare i dischi e tenere concerti. Tutto il resto non fa per me. Non sono tipo da feste, vedo pochissima gente. Diciamo che già con tre persone finisco per eclissarmi. Non frequento il cosiddetto mondo della musica… e, infatti, così facendo, mi sono precluso molte possibilità nella mia carriera. Però, mi diverte stare sul palco. È la promozione dei dischi che non mi piace. Sbattersi in giro, andare a fare la comparsata nelle trasmissioni televisive. Diciamo che mi rompe le palle. Lo so, tutti diranno “ma tu hai fatto un reality!”. Sì, ma più per una questione di studio antropologico di fenomeni simili che per altro. Però, chi ha visto quella trasmissione sa di non aver visto me, ma Baccini in galera. Non ero io”.
Come nasce una tua canzone?
“Non saprei che dire, mi viene. A tal proposito, sono stato costretto a declinare l’invito di Mogol a parlare nella sua scuola. Avrei dovuto spiegare ai ragazzi come si scrive una canzone. Ma come si fa a spiegare come si scrive una canzone? Una canzone ti viene, punto. Per es., per me è raro scrivere partendo da una musica già fatta. Di solito parole e musica mi si presentano insieme. Cinque, dieci minuti, e la canzone è scritta. Sì, poi ci lavoro un po’ su, ma il grosso salta fuori senza sforzi, o costruzioni. Mi capita anche di avere, spesso, l’idea di una musica, ma il più delle volte non vado oltre, quando inizio così. E per questo, ho il cassetto pieno di brani strumentali. Per farla breve, semplicemente accade che mi venga una frase in testa e lì tutto ha inizio”.
Come nasce la tua collaborazione con Sergio Caputo?
“Storia complicata. Io e Sergio siamo stati per anni nella stessa casa discografica, senza mai incontrarci. Lui, poi, è emigrato negli Stati Uniti e, da quel momento, non ho più avuto sue notizie, dopo aver in passato consumato il suo Un Sabato Italiano nel mio periodo swing. Poi qualche anno fa eravamo ospiti, una sera, a un festival. Uscimmo a cena. Dopo qualche mese, mi arrivò una sua email. Mi chiedeva se volessi fare qualcosa insieme a lui. Accettai. La sera ci collegavamo via Skype, abitando molto distanti, lui alla chitarra e io al piano, e così è nato Chewing Gum Blues. È stato divertente lavorare in coppia per la composizione, per me che le canzoni ero abituato a scrivermele da solo”.
Hai realizzato tutti i sogni che avevi quando eri un giovanissimo artista?
“Mi vergogno un po’ a dirlo, ma sì. Ho duettato con tutti quelli che mi piacevano, a parte Freddy Mercury che era già morto, da De André a Iannacci, passando per Angelo Branduardi che, con quelle influenze rinascimentali e medievali, ha rappresentato per me il ponte tra la classica e la leggera. Poi, la musica mi ha portato ovunque a fare tournée, anche in Cina. Al momento, sto uscendo nei paesi dell’Est: Romania, Moldavia, Russia. Tutto ciò mi diverte molto.
In generale, se guardo alla mia carriera e rifletto su certe canzoni, da Le donne di Modena, a Ho voglia di innamorarmi, fino a Giulio Andreotti… in effetti, potrebbero essere di tre cantanti diversi e questo mi piace. Sento di essere riuscito a fare della poliedricità la mia cifra. Ciò, a onor del vero, è merito dell’ascolto dei Queen. Avevo quattordici anni, quando un amico mi fece sentire Bohemian Rhapsody. Comprai il disco, A Night at the Opera. Ciò che mi colpì fu che ogni traccia aveva un mood musicale completamente differente: da un brano che suonava anni trenta, a una ballata, a un pezzo di rock più duro”.
Qual è il tuo rapporto con i social network?
“Li uso per quel che è necessario. Sono un mezzo come un altro di comunicazione e divulgazione. Al solito, il problema sta nel modo in cui vengono usati. Il fatto è che, per anni, il web è stato il far west. Solo oggi cominciamo a comprenderne il funzionamento e a valutarne gli effetti. Certo, ha delle forti criticità e degli aspetti decisamente discutibili. Metti il fatto di potersi iscrivere a Facebook simulando dieci identità diverse. Onestamente, non mi pare corretto. Non si tratta di limitare la libertà, ma a pensarci bene, per avere una linea telefonica, o un cellulare, devi fornire un nome e un indirizzo precisi. Se l’identità non fosse celabile, uno ci penserebbe meglio prima di scrivere certe cose”.
Se non fossi diventato un cantante, c’è qualche altro ambito artistico in cui ti sarebbe piaciuto misurarti?
“Ripeto, faccio proprio fatica a pensarmi fuori dall’ambito musicale. Però, potendo scegliere – visto che certo non sarei mai riuscito a fare l’imprenditore –, direi la recitazione. Con questa strampalata personalità che mi ritrovo, mi piace l’idea di calarmi nella mente e nei comportamenti di un personaggio che non esiste. E, infatti, ho avuto qualche esperienza nel cinema indipendente e devo dire di non esserne rimasto deluso”.
Ti è mai capitato di porti la domanda: “ma ciò che faccio dà un apporto fondamentale alla musica italiana”?
“Mettiamola così: è un problema che non voglio e non posso pormi, perché è un problema da storici. Ci penserà qualcuno, tra cent’anni, a stabilirlo”.
Diciamo che insisto. Vorrei proprio sapere se credi di aver dato un apporto fondamentale.
“Beh, messo alle strette… direi di sì. Credo che Cartoons, per es., abbia realmente portato un’innovazione in ambito musicale. Anche se ho sempre pensato che il mio successo non sia di adesso. Come se fossi fuori tempo, in anticipo. Probabilmente, da qui a cent’anni, sarò molto più famoso di ora. Ma, del resto, è stato così in ogni tempo nella storia dell’arte: gente che ha avuto tanti riconoscimenti in vita, per poi scomparire; altri, che nessuno aveva preso in considerazione in passato, che oggi figurano nei manuali”.
Un giovane artista italiano su cui ti sentiresti di scommettere, o che almeno ritieni avrebbe tutte le carte in regola per meritare il successo?
“Guarda, sento anche qualcosa di interessante in giro, ma… Il problema è che oggi per i cantautori è finita, sono fuori tempo massimo. Non esiste un pubblico ricettivo in tal senso. E poi chi lavora nel settore, per la maggior parte, appunto, svolge un lavoro come un altro, con il semplice fine di far soldi. Ma questo, bisogna metterselo in testa, non è un lavoro, ma una passione e non si può fare con lo stesso spirito”.
Chi è il più grande sottovalutato della musica italiana?
“Di quelli che conosco, io. Sono stato il ponte tra quelli della vecchia guardia e quelli della nuova – oramai non più tanto nuova –; i vari Bersani, Silvestri. Io sono rimasto in mezzo. Il pubblico di quelli vecchi mi vede come troppo nuovo e il pubblico dei nuovi mi ritiene un retaggio della vecchia scuola.
C’è poi il fatto che ho sempre giocato a spiazzare il mio pubblico. Basti pensare a un album come Nomi e Cognomi, album che mi ha creato infiniti problemi, in cui è contenuta probabilmente la mia più bella canzone, Renato Curcio. Poi, nell’album successivo, ti piazzo una canzone come Ho voglia di innamorarmi. Il pubblico mi scriveva protestando, della serie “ci hai traditi”. Si trattava in realtà di una canzone che concerne il senso della vita e che, come tutte le mie, utilizza un linguaggio semplice e immediato. Ed è questo che mi piace, l’immediatezza, proprio come in Tenco, che è intellettuale, ma scrive canzoni che potrebbe comprendere anche un camionista. Basti pensare al verso: “Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare”. È proprio questo che non gradiscono, che tu arrivi alla gente in modo immediato e comunicando un messaggio. È per tal motivo che, parliamoci chiaro, Tenco non è morto di vecchiaia, come anche Rino Gaetano o, in un altro ambito, Pier Paolo Pasolini. Saranno casi, ma io ai casi non credo. Il punto è che, quando hai questo dono di arrivare alla gente, diventi pericoloso per il potere e sappiamo bene, con De André, che “non esistono poteri buoni”. Tu rischi di aprire gli occhi alle persone e questo non è ben visto da loro”.
Credi ci siano profonde differenze tra il cantautorato femminile e quello maschile?
“La prima differenza che mi viene in mente è che di cantautrici ce ne sono poche. Sì, c’è Carmen Consoli, Paola Turci, la Nannini, ma la maggior parte sono soprattutto interpreti, come la Mannoia e Ornella Vanoni. Anche storicamente, per tutta una serie di questioni antropologiche, le donne si sono affacciate sulla scena molto tardi rispetto ai maschi e hanno sempre avuto difficoltà a esprimersi artisticamente, non trovando spazio. Poi, sì, nelle loro canzoni emerge un altro modo di rapportarsi al mondo, ma questo è ovvio, dato che lo vedono da un punto di vista diverso.
Esiste però un aspetto interessante che concerne il rapporto tra le donne e l’arte: a differenza degli uomini, le donne “sono la creazione”. Noi possiamo fare quattro figli al giorno e non rendercene conto, mentre loro fanno un figlio e se lo portano dentro per nove mesi. È come se avessero una marcia in più sul piano creativo”.