Il presidente Carlo Tavecchio si è dimesso, completando il suo percorso da personaggio fantozziano. Ha avuto bisogno di una settimana per passare da direttore della Megaditta (la Figc) a capro espiatorio, tornando il ragionier Tavecchio, quello che scambiò la Coppa del Mondo per la Coppa Cobram.
Un concentrato di italianità – quella peggiore – che unisce l’alto (il governo del calcio) e il basso (la fine per incapacità, la gente, gli stadi), la provincia e la metropoli, la Politica e il Pallone. Un uomo di settantaquattro anni col gilè sotto la giacca, che parla un francese da croupier casereccio e usa un italiano ottocentesco, facile alla commozione come alla prepotenza, convinto che tutto il mondo è paese, il suo, Ponte Lambro, dove è stato sindaco dal 1976 al 1995 con la Democrazia Cristiana e da dove è cominciato il suo percorso quando ha fondato la Polisportiva di Ponte Lambro, il sogno di un impiegato di banca, che poi si è allargato a dismisura.
Una vita nei Dilettanti (la Lega calciatori), sui campi della Lombardia, tra consulenze per i Ministeri, spogliatoi e sottoscala, fino alla ribalta, come compromesso. Tavecchio è una sfumatura tra posizioni – apparentemente – inconciliabili, diventa il punto di incontro, la provvisorietà che regge i grandi e i piccoli club del calcio, una trasversalità imposta dalle scadenze, è un Fanfani balneare che Lotito tira fuori dal cilindro, e che quasi tutti i presidenti di serie A accettano, preferendolo a Demetrio Albertini prima, e ad Andrea Abodi dopo.
Eletto nell’agosto del 2014, viene riconfermato nel marzo 2017. È rassicurante, anziano quanto basta, manovrabile per alcuni, accondiscendente per altri, persino saggio secondo pochi, abituato alla scacchiera politica, agli intrecci di Palazzo e al pragmatismo appreso in banca con i padroncini: si fa subito infantiniano – nel senso di elettore con riscatto di Gianni Infantino: presidente della Fifa post Blatter – ottenendo un posto di vice presidente Uefa per Michele Uva e un seggio nel Consiglio Fifa per Evelina Christillin; traguardi rivendicati nella conferenza d’addio, dove ha anche ricordato che con Aldo Biscardi voleva il Var prima di tutti, e che c’è una lettera a Blatter che lo dimostra.
L’autoattestazione di meriti senza l’oggettività analitica di un dirigente che davanti a una caduta sportiva, economica e sociale, sceglie di non dimettersi, poi di piangere in favore di telecamera con “le Iene” (mancava solo il “Sire pietà” che Villaggio esibiva con Berlusconi) e infine – con una settimana di ritardo, quando ormai era chiara la sfiducia – di dimettersi, e in una capriola oltre-democristiana di rammaricarsi perché il Consiglio non si dimetteva con lui, pretendendo dagli altri un tempismo che non aveva applicato a se stesso. Una scena che nemmeno Ennio Flaiano poteva immaginare.
La sua conferenza stampa post dimissioni è un concentrato del suo essere: strappi e rivendicazioni, toni che salgono e scendono, vampate di rossore, qualche bugia, inciampi verbali ed esibizione dell’Io. In tanti lo hanno identificato con la Casta e la Prima Repubblica, raccontandolo al ribasso, preoccupandosi solo dei suoi cinque stipendi (l’indennità per la guida della Federcalcio, il compenso come commissario della Lega di Serie A e quelli come amministratore di tre società, due partecipate della Lega Nazionale Dilettanti e una della Figc), delle sue aperture improprie (da donne e gay un gradino sotto al “razzismo” da bar: Optì Poba che mangiava banane, uscita che fu difesa da Marco Tardelli, Gigi Riva, Adriano Galliani e molti altri), quando, invece, bisognava raccontarlo come un prolungamento del mondo creato da Paolo Villaggio, capace di oscillare dal direttore a Fantozzi.
Dal capo al ragioniere, o se volete dal ragioniere che diventa capo, una variante tra le tante avventure del ragionier Ugo matricola 1001/bis. Se lo immaginate con Villaggio, cambia tutto, si addolcisce persino la perdita del mondiale, poi pensandolo in bicicletta che sale sul Sassolungo, torna la Coppa Cobram, lo sport come sofferenza, e si riesce persino a ridere. Ma tutta la sua storia, con gli altri attori, sembra partorita dalla commedia all’italiana che non funziona più al cinema perché lo ha doppiato in un giro che dalla realtà arriva all’iperrealtà passando per social e tivù. Pensate a Claudio Lotito, a Giovanni Malagò, allo stesso Gian Piero Ventura e anche a Marcello Lippi, avrete delle scene meravigliosamente fantozziane: da Ventura (l’unico buono, per stare al cinema era Lino) ossessionato più dalle chat WhatsApp che dalla formazione – stando alle ricostruzioni di Caressa e Alciato di Sky –, da Lotito che si fa selfare col giubbotto della Nazionale, da Lippi che c’ha famiglia e con la famiglia sempre un problema, fino a Malagò che, da Megadirettore Galattico Duca Conte Bàlabam, con dolcezza infinita va in tivù da Fabio Fazio a sfiduciare Tavecchio.
Ma tutta la settimana dalla partita di San Siro con la Svezia alle dimissioni del presidente ragioniere, è stata fantozziana, dove persino i retroscena sulla scelta di Ventura come allenatore della Nazionale erano da operetta e raccontano in controluce Tavecchio come pupo e non come puparo. Moggi dice che a scegliere Ventura è stato Lotito, che a sua volta accusa Lippi che era la scelta di Tavecchio che ignorava le regole, mentre Malagò era preso dalle Olimpiadi (poi mancate). Un valzer di colpe e decisioni, tra tavolate e tramonti, per sedimentare atteggiamenti, preferenze e inclinazioni, tra proiezioni senza fondamenta e specialisti accreditati con imposizioni o in base a favori senza mai calcolare i danni. Tavecchio era l’immutabilità del calcio, la scelta e il passo prima dei commissari – da Montalbano nei romanzi e in tivù a Cantone in ogni altro luogo – che, invocati, suppliscono: la semicurva prima della svolta, l’anticipazione frenante, insomma l’ossimoro che caratterizza il governo di ogni cosa in Italia. Perfetto per il mondo del calcio, fatto di semirivoluzioni, semievoluzioni, semisvolte: in pratica un campo incolto.
Dove il colono Tavecchio rappresentava al meglio e in pieno lo stato della proprietà con l’aggiunta – fantozziana – del “nuvolone da impiegati”: il palo di Darmian, che lo avrebbe tenuto al suo posto. Predicava una modernizzazione sul lungo periodo, senza mai intraprendere la strada della discontinuità. Le riforme che il calcio aspetta come le aspetta la politica. Una partita eterna che si gioca su un campo accidentato, dove la confusione prevale sulla ragione, e le affiliazioni politiche e quindi calcistiche riflettono la rissosità delle curve. Tavecchio ha provato persino ad opporsi alle disfunzioni corporative, e in molti gli hanno dato credito, andando oltre le diffidenze generate dalle sue numerose gaffe, ma alla fine è stato costretto a lasciare; esautorato dai fatti: complice un allenatore, Ventura, che più passa il tempo più appare maldestro, cosa che era già chiara a mezza Italia fin dal giorno del suo ingaggio; dalle alleanze divenute fragili in consiglio federale: dove sedeva e siede una élite non élite, senza una direzione definita.
Nessuno rimpiangerà Tavecchio – nonostante le lacrime che verseranno i suoi ragazzi a Ponte Lambro, almeno a stare alle sue dichiarazioni – è riuscito strategicamente a negare il mondiale all’Italia, a cancellare una delle poche certezze con il pensionamento lungo, a un paese in stallo. Inadeguato con indubbia coerenza, in questi anni, è riuscito a tenersi sempre sul filo tra degenerazione ed effetto perverso del nostro calcio.
*Da Il Mattino