Giuseppe e Roberto, avieri ai tempi della Guerra Fredda: “I piloti? Erano secondi solo a Dio e un ordine non si rifiutava mai!”
E’ un botta e risposta continuo, nessuno li ferma e la risata ci scappa sempre. Difficile pensare che tanto spirito venga da persone che, ad occhio e croce, potrebbero essere tuo padre; strano, invece, credere che quell’ironia sia figlia di ricordi di un dovere che gli italiani sono felici (forse) di essersi lasciati alle spalle. Roberto e Giuseppe, infatti, come milioni di loro coetanei hanno prestato servizio militare, in Aeronautica, e il ricordo dell’esperienza vissuta vive nel quotidiano, in chat con un giornalista e nell’impegno comune nell’associazionismo combattentistico: Associazione Arma Aeronautica e Associazione Nazionale Vigilanza Aeronautica Militare.
Per loro, insomma, la leva è qualcosa da tenere nel cuore, fra i ricordi più belli malgrado abbiano adempiuto a quel dovere in un contesto completamente diverso dal 2017, differente anche dalla realtà vissuta dai successori degli Anni ’90 e primi 2000.
VAM è un acronimo che sta per Vigilanza Aeronautica Militare, servizio che nasce nel 1949 in seno all’Aeronautica Militare per prendere il posto dell’antecedente PAM – Polizia Aeronautica Militare. Dal nome si capisce, dunque, che l’attività principale del personale è la sorveglianza delle infrastrutture aeroportuali, ma non solo.
“Ricevere l’idoneità era cosa tutt’altro che facile – ricorda Giuseppe, 117° Corso VAM a Viterbo nel 1982 – perché per far parte della Vigilanza Aeronautica Militare era necessario avere buona tempra e fedina pulita. L’addestramento si svolgeva nella caserma di Viterbo (oggi sede della Scuola Marescialli Aeronautica Militare, ma ancora nota ai viterbesi come “la VAM”) e durava circa due mesi nel corso dei quali le marce erano poche, molta invece la preparazione militare. I primi venti giorni erano di addestramento formale poi si passava all’apprendimento all’uso delle armi da fuoco, alla preparazione fisica e a quella teorica”.
Anche Roberto fa il CAR in Centro Italia, ma dodici anni prima. E’ il 1972 quando varca la soglia della Centro Addestramento Reclute di Siena in una uggiosa giornata d’autunno e dopo un viaggio estenuante da Milano. L’accoglienza, però, non è migliore della sfacchinata fatta in treno:
“Appartenevo al 3° Contingente del novembre 1970. Tre cambi e mezzo per arrivare a destinazione: Milano-Firenze, Firenze-Empoli, Empoli-Siena per poi scoprire che l’Aeronautica non ha i bus e così, con un freddo cane, sali su un autocarro, raggiungi la caserma e sei subito inquadrato. Dividevamo gli spazi con i marò: loro marciavano di notte e rientravano di giorno; noi il contrario. La formazione era dura, molto severa: ogni volta che si andava in libera uscita, ad esempio, ti controllavano tutto dalla bustina ai calzini per vedere se eri in ordine”.
Il primo impatto è difficile pure per Giuseppe:
“Cosa ricordo? – Ecco le burbe (reclute, nda)!- gridato dai nonni a Viterbo al nostro ingresso al centro. Fino al decimo mese di servizio eri burba poi, con l’avvicinarsi del congedo, ci si poteva fregiare del titolo di ‘nonno’. Invece, al dodicesimo eri ‘fantasma’ poiché prossimo a tornare borghese”.
Sessanta giorni di CAR non sono pochi ma passano; poi, l’arrivo al reparto: Giuseppe va a Milano, peraltro sua città d’origine, al Quartier Generale della 1° Regione Aerea; Roberto è destinato a Padova presso un reparto missilistico, 1ª Brigata aerea intercettori teleguidati armi simbolo dell’epoca della Guerra fredda.
Giuseppe: “A Milano ero distaccato in Piazza Novelli; fra i miei compiti quello di rappresentanza: picchetto a Spadolini, ad esempio, o un’altra volta in una trasmissione televisiva della RAI. Tuttavia, il più delle volte il mio gruppo era chiamato ad adempiere compiti di difesa, operazioni più prettamente militari dunque, nonché molto ma molto delicate quali la sorveglianza e la scorta a convogli che trasportano missili. Ero 1° aviere capo posto; ci sentivamo dei privilegiati perché, in fondo, non tutti i militari di leva facevano quello che facevamo noi”.
Roberto: “A Padova ci viene incontro un sottufficiale coi calzini rossi, primo segnale che al reparto il clima era più disteso. In effetti, potevi startene accanto ad un colonnello senza schizzare sugli attenti perché l’Aeronautica da questo punto di vista è sempre stata meno rigida dell’Esercito. Inoltre, a mensa non mangiavamo sui vassoi d’alluminio come i fanti ma su piatti di ceramica. Gli aviere erano divisi per specialità: elettricisti, vigili del fuoco, addetti alle comunicazioni, i generici o ‘sciacquini’ come li chiama Giuseppe e altri ruoli fra i quali il mio, trasportatore. Avevo la patente D militare, mantenuta fino ai 60 anni, abilitazione alla guida di bus e camion e titolo non da poco, tanto in base quanto nella vita civile perché poteva aprire ad interessanti lavorative. Sono rimasto a Padova fino al febbraio 1972: c’era stato il ‘golpe Sogno’ (Edgardo, nda) e l’Aeronautica mantenne operativi alcuni reparti per ragioni di sicurezza. In tutto 13 mesi e mezzo: novembre 1970, febbraio 1972”.
Giuseppe: “Ha detto bene, ‘sciacquini’, quei generici che dovevano chiederci il permesso anche per uscire. Il più giovane degli avieri VAM contava più di un loro anziano”.
Roberto: “Sciacquino ci sarà sua sorella, io ero uno specialista. E poi i contatti con i VAM non erano molti, poiché svolgevamo ruoli differenti”.
A distanza di quasi una generazione dalla sospensione della leva, viene da chiedersi come gli avieri di allora guardino i “colleghi” di oggi. Secondo Giuseppe “noi eravamo militari, quelli di adesso sono dipendenti della Difesa. La differenza? Che ai nostri tempi non si poteva rifiutare un ordine, a meno che non fosse folle e quindi contrario alle stesse leggi dello Stato. Però, non esisteva la possibilità di tirarsi indietro; al contrario, se adesso ti dicono di fare qualcosa fuori dall’orario di servizio puoi ricordare che il tuo turno è finito o che non è tuo compito pulire un bagno o tirare di ramazza. Credo abbiano anche delle associazioni di tipo sindacale alle quali rivolgersi in caso di necessità, cose che nel 1982 erano pura fantascienza. Inoltre, mi è capitato di notare nelle basi che al passaggio di un Ufficiale pilota l’aviere manca di mettersi sugli attenti: quando ero in servizio, il pilota veniva dopo Dio”.
Giuseppe e Roberto e molti altri loro commilitoni si sono ritrovati grazie ai socials e ad associazioni nate per riunire e mantenere viva un’esperienza cancellata dalla legge, ma impossibile da dimenticare per chi l’ha vissuta. E chissà che, nel 2017, una naja non sia ancora possibile: sapete, vero, che gli studenti di superiori ed università sono tenuti a raccogliere crediti formativi per diploma e laurea? Bene, perché non farlo allora nelle organizzazioni combattentistiche: volontariato fra la tradizione, la disciplina, i ricordi e la goliardia di ragazzi sempre giovani, fratelli più che nonni!