Dategliela, la maglia numero 10 a Lorenzo Insigne. E se lo farete non mancherete di rispetto al ricordo di Diego Armando Maradona ma, probabilmente, darete uno stimolo in più a tantissimi ragazzetti che sognano di dare calci a un pallone.
La grande prestazione in azzurro (nazionale) di Insigne contro il Liechtenstein, coronata da una rete sensazionale, ha smosso la questione della “dieci” a Napoli. Che lì è caso dottrinale e teologico prima che sportivo.
In primo luogo bisogna subito dire che, dopo El Pibe, sono stati tanti altri a indossare la maglia più pesante di tutto il campionato italiano. Quando Maradona andò via da Napoli, nel 1991, ancora non c’erano le casacche personalizzate che, all’epoca, era solo un’esotismo da football americano che rendeva ancor più affascinanti i mondiali.
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Dopo Maradona – e prima dell’ultimo, El Pampa Sosa che la indossò in C – vennero Gianfranco Zola e Benny Carbone. Quando il campionato italiano adottò le maglie personalizzate, il Napoli affidò la “dieci” a Fausto Pizzi, fantasista ex Inter, nel 1995-96. L’anno dopo toccò indossarla a Beto, ragazzone del Mato Grosso che Ferlaino credette il nuovo Baggio (e avrebbe potuto esserlo se, forse, gli si fosse data un po’ di fiducia in più). Quindi toccò a Igor Protti, ultimo a indossarla in serie A.
Ciò non vuol dire che la “dieci” non fosse più assegnata. Per due stagioni (in B) la indossò Claudio Bellucci, poi entrati nel terzo millennio, la maglia fu ritirata in onore alle gesta eroiche di Diego Armando Maradona.
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Il capitombolo in C (dove vigeva la regola tradizionale dei numeri dell’uno all’undici) consentì a Roberto Sosa di far rivivere la magia del dieci al San Paolo. Poi, complice la risalita dalla terza serie fino alla Champions, sparì.
Fino agli ultimi mesi, quando le velleità scudettate della squadra e della città non hanno fatto riconsiderare la possibilità di togliere dalla naftalina il “dieci” per affidarlo a Lorenzo Insigne.
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La seconda parte di questo discorso, però, non può prescindere dal fatto che a Napoli, Maradona compare nei lares domestici e cittadini. È stato trasfigurato, lui ancor vivo, tra le divinità (laiche) che proteggono la città. Più che i murales, lo santificano quei quadretti nazionalpopolari a pastello dove spesso compare in compagnia di Totò, Sofia Loren (anche lei una trasfigurata), Pino Daniele, Massimo Troisi, Eduardo e Peppino De Filippo.
Il volere delle divinità non può essere ignorato, e così (a quanto pare) lui non sarebbe così contento di cedere le spoglie (calcistiche) in cui si incarnò per sublimarsi nel Mito di Napoli ribelle, un cavaliere eretico e peccatore ma divino nel dipingere epica che più carnale non si può, un condottiero vero e spericolato, con tantissime macchie ma senza paura. Che certa politica napoletana, oggi, tenta disperatamente di imitare senza riuscirci: Maradona è quanto di più popolare ci sia, e non c’è niente di meno credibile di un aristocratico che vuol farsi passare per popolano. Ma questa è un’altra storia.
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Vero è che nessuno, allo stato attuale, potrebbe ereditarne lo scettro. Nemmeno Messi (e Diego glielo ha scritto chiaramente nel suo ultimo libro). Potrebbe farlo Insigne? Boh. Ma il fatto che un ragazzino nato a Frattamaggiore possa coronare il sogno di incantare il San Paolo con il dieci sulle spalle restituisce senso grandioso a una bellissima considerazione di Alex Del Piero, un altro immenso del calcio italiano. Quando i tifosi vollero chiedere alla Juve di ritirare la dieci, lui disse di no perché voleva che i piccoli juventini sognassero un giorno di poterla indossare loro. E teneva ragione.
Il calcio (almeno quello che piace a noi) appartiere al mito, ai sogni non ai ragionieri. E il mito, per vivere, ha bisogno di continue incarnazioni: segregato in una teca, lontano dalla gente, muore. Perciò, forse, è il caso di dargliela ‘sta maglia a Insigne e premiare la sua stupenda follia di volersi fare (anche lui) incarnazione del sogno pallonaro.