Ho promesso in uno dei Minima di qualche settimana fa di precisare la sostanza del primo passo verso l’intesa tra lo stato italiano e le comunità musulmane del nostro paese. Ecco qua.
Al contrario delle altre comunità religiose presenti nel paese, quella musulmana – certo divisa al suo interno: ma anche altre comunità lo sono – non ha ancora alcuna intesa con lo stato: il che ad esempio impedisce ai cittadini che volessero farlo di sostenerla con il versamento dell’8 per mille. Ciò è particolarmente grave vista fra l’altro la consistente entità numerica dei musulmani in Italia: 1.600.000 persone, di cui 250.000 in possesso della cittadinanza italiana.
Il 1° febbraio scorso, un patto nazionale con lo stato italiano, siglato al Viminale dal ministro degli interni, è stato sottoscritto da nove organizzazioni musulmane: la CII, la UAMI, l’Associazione Pakistana “Muhammadiah”, la CICI, l’Associazione Sjeikh Amadou Bamba, l’UCOII, l’Associazione Madri e Bimbi Somali, la COREIS, l’Associazione Imam e Guide Religiose.
Il livello della pura “dichiarazione d’intenti”, che costituiva la sostanza della “Carta dei Valori” firmata nel 2008, è quindi definitivamente superato: siamo a un testo congiuntamente concordato e contenente veri e propri impegni bilaterali che dimostra, fra l’altro, come la frammentazione all’interno del mondo musulmano sia gestibile e modificabile nel senso della direzione verso il raggiungimento di una vera e propria intesa.
Ovviamente, il patto del 1° febbraio non si configura né come una vera e propria “Bozza d’Intesa”, né come l’avvìo di un disegno di legge. Tuttavia, individua con chiarezza e in modo esplicito dieci punti: tra essi la condanna del radicalismo e la trasparenza dei finanziamenti nazionali e internazionali alle moschee. Resta comunque molta strada da fare verso un obiettivo costituito da quella legge organica in materia della quale si parla da circa trent’anni.
UNA GIORNATA (FORSE) DECISIVA IN TURCHIA
Oggi, per la repubblica turca, è il Grande Giorno. Si decide in via referendaria se essa manterrà l’assetto istituzionale di repubblica parlamentare scelto nel 1923 o se si trasformerà invece in repubblica presidenziale secondo gli auspici del reis Recep Tayyip Erdoğan. Per grandi linee e in estrema sintesi, i cittadini turchi dovranno approvare o respingere – a maggioranza di 2/3 dei votanti – un “pacchetto” di 18 emendamenti alla carta costituzionale del ’23. Tra essi, sono di un qualche rilievo quello “garantista” che prevede la possibilità d’impeachment, quello vagamente demagogico e in fondo non necessariamente “autoritario” riguardo la riduzione dei membri dell’Assemblea Nazionale, quello decisamente indice di “discontinuità” secondo il quale saranno abolite le corti militari, presidio da sempre del “laicismo” kemalista. Ma i due che qualificano in modo evidente la svolta sono quello che riguarda la durata del mandato presidenziale (due legislature, vale a dire un decennio, dopo le prossime elezioni previste nel ’19) e quello che concerne l’abolizione della carica di primo ministro: il che vuol dire che Erdoğan resterà alla guida del popolo turco fino alle elezioni del ’29, indipendentemente dall’esito di quelle del ’19 e del ’24 (e ci resterà come capo del suo partito, dato che un altro emendamento prevede che il presidente non sia tenuto ad abbandonare lo schieramento dal quale proviene: che non debba più essere quindi almeno formalmente super partes) e che il suo sarà effettivamente un potere, diciamo così, “di regno e di governo”, secondo il modello americano anziché secondo quello francese o tedesco, che prevedono rispettivamente un primo ministro o un cancelliere che affianchi il capo dello stato esercitando le funzioni di capo del governo.
Riuscirà il reis a ottenere, su questo “pacchetto”, i 2/3 del consenso dell’elettorato? Se non ce la facesse, è pronta la soluzione di riserva: il voto spetterà ai parlamentari dell’Assemblea Nazionale che dovranno esprimersi fra otto mesi, il 6 gennaio del ’18; e in quel caso sarà sufficiente la maggioranza semplice.
Il punto centrale, comunque, sta nelle condizioni secondo le quali si è giunti al voto. Dopo il fallito (o simulato? O, com’è in ultima analisi più probabile, autentico ma da un certo momento in poi “manovrato”) golpe del 15 luglio scorso, il paese non è più uscito dallo “stato d’emergenza” con relative leggi speciali. Il rischio è che, se passa il referendum, tali leggi passino in un modo o nell’altro, secondo questa o quella procedura, da “speciali” a “ordinarie”: che cioè il sistema si trasformi in un regime. E che, se non passa, il paese cada nel caos: dal momento che appare impensabile sia che da un lato le opposizioni non chiedano a gran voce che il reis se ne vada, sia che dall’altro egli continui a governare come se niente fosse stato.
Intanto, questi nove mesi circa di “dittatura” nel senso etimologico del termine – cioè di poteri e di leggi speciali legittimati dallo stato di emergenza – hanno profondamente mutato il volto del paese. I media sono stati costretti a tacere o ad allinearsi; molti militari, magistrati e docenti universitari sono stati rimossi dalle loro funzioni; molti giornalisti, intellettuali e scrittori arrestati o incriminati o minacciati; i programmi Erasmus per studenti stranieri sono stati sospesi e chi era titolare di borse di studio, costretto a rientrare nel paese d’origine, il che costituisce da solo un pesante fattore d’isolamento della Turchia; i sistemi informatici sono soggetti ad attento controllo e non mancano casi di persone arrestate solo per aver diffuso messaggi o foto via facebook; a fronte di una sempre più aggressiva e frenetica attività del partito del presidente, le voci dell’opposizione si sono fatte sempre più flebili e l’HDP, il “partito democratico dei popoli”, che rappresenta le minoranze etnico-religiose (curdi, yazidi, alawiti), appare ormai emarginato. Stanno con Erdoğan anche molti nazionalisti di tendenza “laica”, ma che, pur non apprezzando l’evidente simpatia che corre tra le forze vicine al reis e le varie correnti religioso-radicali, approvano il suo rigore nei confronti delle minoranze, soprattutto dei curdi. Insomma, non lasciamoci troppo fuorviare da chi si richiama all’entusiasmo libertario dei tempi del Ghezi Park: atmosfera e contesti sono cambiati.
Il tono civile che predomina, in questo momento prereferendario, è una sorta di disinteresse frutto in parte d’intimidazione, in parte di rassegnazione. Che ruolo avrà, nel mondo mediterraneo e vicino-orientale, una Turchia vicina al radicalismo musulmano e che nonostante ciò resterà nella NATO di cui è parte integrante?
E questo ci richiama agli errori di noialtri europei: che alcuni anni fa, quando Erdoğan bussava con insistenza e quasi con umiltà alla porta dell’UE, gli facevamo continui, insistenti esami di europeicità, di democraticità, di occidentalità. La Turchia non era ancora “matura” per questo e per quest’altro, il suo passato ottomano era d’ingombro alla vocazione europeistica (perché, poi?), si trattava pur sempre di una nazione musulmana estranea alla nostra identità (ma non si era sempre blaterato sulla vocazione “laica” dell’Europa? “Laicità” non è chiusura dinanzi a questa o a quella fede, è rispetto di tutte). Eppure sapevamo tutti che uno dei possibili sbocchi ideologici dell’erdoğanismo, insieme alle tentazioni neo-ottomane, era una qualche riedizione del panturchismo: non era certo un caso se nei bazaar d’Istanbul, insieme agli immancabili onnipresenti ritratti di Mustafà Kemal, aveva ripreso a rispuntare qua e là anche qualche ritrattino di Enver Bey, la bestia nera degli armeni, il consigliere militare del Kaiser e di Lenin, l’eroe martire del jihad antisovietico nell’Asia centrale del ’24. Ma la prospettiva centroasiatica del reis, fino all’Azerbaijan e ancora oltre, verso le repubbliche turcomongole centrasiatiche, se l’ingrasso della Turchia nell’UE lo avesse consentito, ci avrebbe fatto arrivare fino a confinare col cuore profondo dell’Asia (certo, Putin e Cina permettendolo).
Ma l’UE aveva altro da fare e da pensare. Il suo governicchio di ragionieri miopi e pignoli, la Commissione Europea “comitato d’affari” degli azionisti privati della Banca Centrale Europea, erano occupatissimi a taglieggiar greci, spagnoli e italiani, mentre il Parlamento Europeo era occupatissimo a discettare su vitali questioni quali la lunghezza “legale” degli stoccafissi pescabili e commerciabili nonché sulla percentuale di burro di nocciole da legittimamente aggiungere alla pasta di cacao per poter denominare “cioccolato” il prodotto finito. Un Erdoğan presidente di una Turchia membro della UE si sarebbe forse comportato con maggior prudenza in occasione del golpe dello scorso anno, e magari avrebbe flirtato un po’ meno con le potenze arabe del Golfo e perfino col Daesh. Ed ora eccolo invece qua, che da una parte pensa a un’alleanza bilaterale turcostatunitense che “bypassi” l’Europa, ora perfino a una storicamente inedita per non dir inaudita (nel senso etimologico del termine) intesa turco-russa. E, come diceva in tempi non sospetti il principe Bakunin, se lo czar e il sultano si abbracciano, a restare strangolata in quell’abbraccio è la libertà.