In un editoriale apparso sul “Corriere della Sera” venerdì scorso, Aldo Cazzullo lamenta che il 25 aprile 2024 si sia persa un’occasione storica, ovvero la sospirata riconciliazione nazionale riguardo a fascismo e antifascismo. E ne attribuisce l’onere interamente alla destra italiana ora al governo. Cazzullo ha ragione? Sì, nel dolersi che la storica occasione non si sia tradotta in qualcosa di concreto. No, nell’addossare tutte le colpe alla destra. In realtà, nel suo articolo, Cazzullo qualche errore veniale, alla sinistra, lo rimprovera: «Un certo gusto di escludere più che di includere, una certa alterigia intellettuale, un certo compiacimento di “pochi ma buoni”», scrive la firma del “Corriere”, «non hanno certo giovato alla loro giusta causa». Questo è senz’altro vero, ma Cazzullo non coglie in cosa effettivamente consistano le responsabilità della sinistra in tale mancata pacificazione. E, di conseguenza, ne sottostima entità e portata. Nelle scienze psicologiche esiste un concetto che prende il nome di «double bind», traducibile come «doppio vincolo»: è quella circostanza in cui una persona è posta in una condizione per la quale qualsiasi sua azione sarà comunque valutata come errata e disdicevole dachi le è attorno. Una condizione che si può rendere efficacemente con la frase «come fai, sbagli». Cazzullo si illude che, se qualche notabile della destra politica, a cominciare dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dichiarasse a gran voce «sono antifascista!», ciò basterebbe a tranquillizzare la sinistra rispetto al timore che sia alle porte l’instaurazione di un regime conservatore e autoritario, inducendola a non adoperare più, come da sempre accade, l’aggettivo «fascista» alla stregua di una clava con cui colpire (e screditare in partenza, a prescindere dal merito delle questioni) qualunque opinione venga espressa dai suoi avversari politici. Ma così non sarebbe, e ce lo insegna innanzitutto la nostra storia recente. Nel novembre del 2003, in visita in Israele, Gianfranco Fini – allora leader di Alleanza Nazionale, partito erede del Movimento Sociale Italiano – disse la frase «Il fascismo è l’epoca del male assoluto». Frase dalla quale, come lei stessa ha sottolineato non molto tempo fa, Giorgia Meloni non si è peraltro mai dissociata. Questo servì, all’epoca, a far sì che la paranoia antifascista si quietasse? Neanche per idea, e basti appunto osservare quale sia la realtà italiana odierna, a vent’anni di distanza. Dicevamo del «double bind». È emblematico quanto capitato proprio alla Meloni in occasione del caso Scurati. Immediatamente dopo la scelta, come minimo discutibile, dei vertici Rai di non mandare in onda il discorso dello scrittore, la premier – consapevole che l’incauta decisione le avrebbe creato soltanto problemi – ha diffuso sua sponte, tramite i social, il discorso medesimo, segno indiscutibile che non aveva intenzione di occultarne i contenuti. Ma questo poco o nulla ha contato: l’opposizione e l’opinione pubblica di sinistra hanno seguitato ad accusare la Meloni di avere voluto una censura di stampo fascista. Qualora, invece, Antonio Scurati avesse letto il suo breve «monologo» (dalle cui righe emerge con forza l’intenzione, più ancora che di commemorare Giacomo Matteotti, di attaccare frontalmente il capo del governo e la coalizione da questi guidata), è verosimile che qualche esponente della maggioranza avrebbelecitamente espresso il proprio fastidio (come del resto sarebbe accaduto a posizioni politiche invertite). A quel punto, senza nessun dubbio, le opposizioni avrebbero iniziato a paventare, da parte della destra, intenzioni censorie, tentazioni autoritarie e nostalgie di natura, se non fascista, fascistoide. Come si vede, non se ne esce. Il dato incontrovertibile, difatti, è che nessuna frase e nessun gesto che esprimano condanna verso premesse ed esiti della ventennale parabola mussoliniana sarebbero sufficienti perché la sinistra conceda alla destra la patente democratica. «Del resto solo in Italia la parola destra è considerata sinonimo di fascismo», rileva ancora Cazzullo. Proprio così, ma non è la destra a dirsi fascista o a richiamarsi al fascismo: è la sinistra a postulare un’equivalenza che potremmo definire ontologica tra destra e fascismo. Come ha scritto Marcello Veneziani su “La Verità” lo scorso 24 aprile, «gli antifascisti di comodo, a babbo morto, in pieno dominio antifascista, si attribuiscono una superiorità etica e morale in suo nome (in nome dell’antifascismo, ndr); si arrogano il potere di essere perennemente giudicanti, officianti e sovrastanti nel nome assoluto della religione antifa. Ai loro occhi, quelli che vengono accusati di fascismo non solo non hanno diritto di difendersi, ma devono prendere gli schiaffi e dar ragione a chi li schiaffeggia, mentre li schiaffeggia. Altrimenti vuol dire che sono rimasti fascisti dentro o sotto la buccia». Ora, è evidente che la ripulsa nei riguardi del fascismo, da parte di chi ha alle spalle una storia politica avviatasi in un partito, il Msi, che rispetto alla dottrina fascista ha sempre rivendicato una continuità ideale e culturale, non potrà mai essere assoluta e viscerale come quella di una persona di sinistra; tuttavia non è affatto da escludere che una certa reticenza, a destra, a definirsi esplicitamente antifascisti sia anche, se non soprattutto, una risposta a questo sentirsi – anzi, a questo essere – perennemente sub iudice; una reazione al fatto di avere un dito accusatore sempre e inesorabilmente puntato contro. Dunque le occasioni sprecate non sono tanto quelle in cui un esponente della destra ha mancato di dichiararsi antifascista, come ritiene Aldo Cazzullo, ma quelle – e in Italia sono un numero tendente a infinito – in cui non si è registrato il mutuo riconoscimento, tra antagonisti politici, di legittimo interlocutore democratico. E di queste occasioni sprecate, lo ripetiamo, non sembra essere la destra il principale colpevole.