Undercover boss è il simbolo massimo delle aspirazioni di una borghesia gretta, ipocrita e disumana al punto da avere la presunzione di contrabbandare per bontà d’animo e premialità quelli che (forse fino a trent’anni fa?) erano diritti normali dei lavoratori. Nemmeno la sulfurea penna di Gustave Flaubert, probabilmente, sarebbe riuscita a dipingere un quadro più nero di quello che i mecenati una tantum (che s’ha dà fa’ per un po’ di pubblicità) si son dipinti da soli.
Ma andiamo per ordine e capiamoci. Non si prenderà in considerazione per questo sfogo, l’edizione italiana del programma. La si conosce poco e, come ogni adattamento internazionale di un format straniero, perde un po’ della sua anima originale. Perciò ci si riferisce a quello americano, quello primigenio. Quello, per intendersi, che ogni finesettimana va in onda sulle reti fighe (sul serio, eh), tipo Real Time.
Le storie proposte da Undercover boss seguono un canovaccio ben chiaro. Il capo si traveste da sfessato alla ricerca di un lavoro, di un cambio vita, di un qualsiasi sprone da giustificare telecamere tv a seguito e si fa assumere come ultima ruota del carro nella sua azienda. Spesso e volentieri trattasi di franchising di ristorazione o di servizi, cose figherrime su cui si sarebbe dovuta intessere tutta l’economia post-industriale. Il capo-pivello impara a lavorare dai suoi stessi operai, capisce cosa non va nel loro lavoro e, alla fine della puntata si svela in un gloriosissimo redde rationem.
L’acme narrativo arriva proprio qui. Il Capo (con la maiuscola) si mostra in tutto il suo splendore. Spesso si commuove ai sacrifici dei suoi dipendenti, povera gente costretta a lavorare in turni massacranti per pochi soldi. Che con la mancia (stipendio è parola pericolosamente socialista, occhio) non si può permettere una beneamata cippa. Allora lui, buono e ravveduto a favor di telecamera, paga all’operaio tutto quello che può. Macchine nuove, promozioni, fondi universitari per figli, nascituri e venturi. Baci, abbracci e dedizione al lavoro. L’operaio, a cui il bisogno e la paura hanno tolto ogni sfrontatezza, contento e felice ringrazia. Vedrà soldi, assafà.
Bene. Ora pensate che un Capo del genere vorrebbe pure essere ringraziato, magari riconosciuto per strada per essere munifico e generoso. In testa a lui, la coscienza se l’è pulita andando in mondovisione a far beneficienza a uno a caso che lavora per la sua azienda. Lo spettatore non può che simpatizzare per il Gran Capo illuminato e fecondo d’umano sentimento.
Avesse giusto il tempo di pensare, lo spettatore, che dietro a quel capitano d’impresa (spesso ereditata da papino) c’è lo stesso tizio che per abbattere le spese ha fatto strame di ogni tutela sociale, ha trasformato la vita di quella gente in un precariato senza via d’uscita, tutto per far felici gli azionisti. Dietro a quegli abbracci prontamente catturati dalle videoprese c’è lo stesso tizio che ne premia uno a sua scelta, scordandosi di tutti gli altri. A caso, come una divinità capricciosa e autoreferenziale che pretende di essere onorata per una bontà interessatissima e malriposta, per imporre quale favore divino quello che dovrebbe essere un semplicissimo diritto: quello a una dignitosa retribuzione, a vivere in pace.
Ecco l’essenza delle classi dirigenti, dell’ipocrisia dell’estabilishment, della borghesia occidentale spigolosa del terzo millennio è tutta qui. Questi tipi hanno la stessa credibilità del Megadirettore che al povero Fantozzi ribadiva il suo essere moderatamente “riformista”. Se non gli avreste creduto allora, perché dovremmo credergli oggi?