È un affresco noir a ritrarre l’incontro infuocato di un amore devastante: il 2 agosto del 1916 la scrittrice e poetessa Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo, incontra il poeta dei Canti Orfici, Dino Campana.
Sulla linea degli amanti, a fronte di quelli regolari e cinematografici di Philippe Garrel, innamorati contestatori, avviluppati nella singolarità del ’68 parigino e nell’unica regolarità del sentimento, troneggiano monumentali e folli gli amanti irregolari. Appassionati, dentro una sfera affettiva che sgretola lentamente ogni singola pulsazione. Se quelli francesi vivono la conformità di un’ emozione, in un contesto del tutto rivoluzionario, quelli nostrani danno vita a una devozione, tanto ribelle da superare anche la cornice disgraziata della guerra. Il loro intimo è più bombardato della terra che abitano.
Supera l’istante quel brevissimo arco di tempo nel quale un corpo si muove in un fremito. È l’emissione di un suono, un solo rintocco sussurrato, al quale l’individuo preferisce farsi sordo. È il refolo di un dolce terrore, che nel primo sfiorarsi di due creature, tenta la potenza della folata alla maniera di un’indicazione: fuggire finché si è in tempo. In quel baléno si determina tutto; se l’allarme corporeo resta inevaso, i due predestinati entrano nel cerchio fatale dell’amore malato. L’impeto decreta che l’adrenalina distruttiva supera l’armonia, poiché l’equilibrio viene considerato messaggero di noia. Sopravvive la convinzione che la passione ardente è nella sofferenza e solo in essa può esistere. Sono due irregolari nella scrittura e nella vita: il 3 agosto del 1916, Dino Campana e Sibilla Aleramo figurano l’incontro di una vampata infausta. Si tratta di un amaro idillio amoroso, che vive sino al 1918 sopra il ritmo scadenzato delle montagne russe; quanto più in alto sale il desiderio, tanto più in basso cadono gli amanti.
Le numerose liti, dove non si escludono anche violenze fisiche da parte dello scrittore, appaiono un circolo vizioso: l’epifania della riconciliazione è l’obiettivo a priori del litigio. Allontanarsi per ricongiungersi con sempre più vigore. Il legame disegna scientemente la dipendenza affettiva. La Aleramo giustifica la violenza, poiché sin dal primo incontro è a conoscenza della malattia mentale del poeta. E quel terrore, che decide di non ascoltare all’inizio, continuerà a tornare durante tutta la loro unione. Il perdono, perseverato sino al crollo è la strada che la riporta sempre dal suo amante. La sua forza risiede nel vano tentativo di volerlo salvare da una mente eccessivamente sensibile alle sollecitazioni esterne.
Rina Faccio in arte Sibilla Aleramo è una scrittrice; quando conosce Campana ha già pubblicato il romanzo Una donna e legato il suo nome a quello di alcuni intellettuali: da Prezzolini a Evola. Incontri che continuano ad alimentare la gelosia di Campana, anche dopo molto tempo. Il primo contatto tra i due irregolari accade in una lettera; la scrittrice fa recapitare la recensione di Foglie d’erba di Walt Whitman. Lui domanda una foto, lei invia scritti e articoli. Il carteggio, Un viaggio chiamato amore, tratteggia una passione indebolita dai disturbi mentali per il quali, il creatore dei Canti Orfici, viene spesso internato in ospedali psichiatrici. Rina è forte, avversa a ogni tipo di conformismo: è decisa a guarirlo. In una lettera all’amico e critico d’arte Emilio Cecchi, domanda aiuto per la situazione mentale in cui si trova l’amato:
Caro Cecchi,
C. è malato profondamente, neurastenia con mania continua di fuga. È atroce quel che la vita può su un uomo… Chiedete, vi prego, a vostro cognato costì o a quello di Arezzo, che cosa si potrebbe fargli prendere, calmante soprattutto per la notte, ma che non nuoccia al cuore. (Me lo direte a voce). So che avete per lui, oltre all’ammirazione, una vera simpatia. Aiutiamoci, Cecchi. Venite, intanto, e poi si vedrà. Sarà contento di vedervi, di discorrere qualche ora con voi. Con altri no. Non dite nulla a nessuno, vi prego, né a Cardarelli né altri, vero?
Se l’amore è pensabile come un’ancora di salvataggio, è similmente presumibile la prepotenza delle eccezioni. Un sentimento, per quanto forte e vivo, non basta ad arginare le derive mentali che ghermiscono la sanità dell’uomo sin dalla giovane età. Ancora, non basta aver abbandonato un marito e un figlio per immolarsi a una creatura in bilico sul confine più angusto, tra una mente sana e la tirannia di un intelletto folle. Carisma, fascino, intelligenza e passione non fanno della donna la sua terapia; lei può solo scendere nel suo crepuscolo e portandosi indosso il rischio di una pericolosa scivolata. Sibilla trova nella scrittura e nella poesia, spesso offerta a Campana, la propria salvezza.
Fauno
Lontane dal mondo,
quercie,
rade nel sole d’agosto,
acque fra sassi,
lontane dal tempo,
e tu
dorato ridi,
tu alla bianca mia spalla
tu alla verginea sua musica
gioia dagli occhi ridi.
L’insania di Dino Campana disegna una mente abitata da troppe ombre, eccessivamente grande, ma al contempo tanto piccola da non poterle contenere tutte. Come se una nebulosa oscura pendesse sempre sul suo capo, un cattivo presagio pronto a farsi voragine e inghiottirlo in qualsiasi momento. L’ospedale psichiatrico per la belva bionda – così lo chiama affettuosamente la Aleramo – è il peggior tiranno dal quale non può sottrarsi; una zona fosca senza ritorno. Il poeta combatte fieramente contro i fantasmi, le incomprensioni, la gelosia, i torti del mondo letterario, ma capitola davanti al nemico invisibile intrappolato nella sua mente. Un ingegno comunque in grado di edificare un’immensa fortezza di poesia: i Canti Orfici. Il “pazzo” di Marradi costruisce una struttura monumentale di visioni, arcani e immagini che danzano all’unisono. La storia del manoscritto è tortuosa, tanto che verrà rinvenuto solo nel 1971. Inizialmente consegnato a Giovanni Papini, si perde nel tempo e nella noncuranza di alcuni. Nella lettura di Carmelo Bene, un genio si fonde nell’altro, per dar voce e corpo a un’opera poetica di inestimabile valore.
È dunque la scrittura la cornice dove si inseriscono i due amanti, un supporto silente che a tratti tende a placarli, altre a esaltarli, tutto in una poesia infinita di un amore maledetto. Dannazione che infine sarà più potente della Aleramo e della sua tenacia. Il 1918 e l’ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze sanciranno definitivamente la fine di quel viaggio: il cuore nell’amore e il sangue nella malattia.
Il dolce terrore del primo incontro, cristallizzato in oscura consapevolezza, trova la sua definizione in una lettera a Leonetta Cecchi, scrittrice, pittrice e moglie dell’amico Emilio:
Tutto vano.
Sono a letto, ma in questa casa non posso più restare.
Se lo rivedrai, cerca (perché la sua anima, se è possibile, un giorno sia meno torbida ricordandomi) di dirgli che finalmente avevi compreso un poco più la natura del mio amore per lui. Non avevo mai impegnata così totalmente la mia esistenza: era adorazione, sottomissione, negazione mia totale… Ora non saprò mai più amare.
Due irregolari nella morsa di una vampata d’amore, alla rincorsa di un tempo che sappia fermarsi e concedere una tregua dall’imbuto scivoloso, dentro il quale sono finiti insieme e per mai avvenire. In un momento l’amore si è fatto malattia e in un altro son sfiorite le rose.
In un momento
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato le rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue roseP.S. E così dimenticammo le rose.