“Tra il giorno e la notte…in quel momento particolare socchiudi gli occhi e cerchi di vedere e di capire nella luce dell’alba o nella luce del tramonto se quello che stai guardando è un oggetto o una figura vivente”. Così Matteo Basilè spiega il senso delle sue creazioni fotografiche.
E le sue parole si portano dietro la stessa eco dei pensieri di Menelao quando rivede Elena. Visione o realtà, inganno o verità, simulacro o forma vera? Euripide scioglie il nodo nei versi della tragedia che aprirà domani la 55ma stagione delle Rappresentazioni Classiche al Teatro Greco di Siracusa. Ma la curvatura della domanda resta nello scatto che l’artista romano ha fatto per raccontarci l’Elena di Euripide, regina di Sparta e mai regina di Troia. Lasciare sgorgare dall’invisibile il visibile può essere chimera può essere carne può essere arte. Matteo Basilè, artista straordinario e originalissimo, fa alchimia del visibile e dell’invisibile, li fonde nella prepotenza dell’apparire. Prepotenti sono le fotografie di Basilè se squarciano il buio con la luce, se i rossi e i gialli e i blu duellano con il nero. Prepotenti se nettezza dei contorni e affioramento del colore ridefiniscono i confini del tempo. “Sono un artista classico – dice Basilè- che usa l’alfabeto del passato per raccontare storie del futuro”. A Matteo Basilè è stata affidata la realizzazione dei tre manifesti delle rappresentazioni classiche e l’artista ha compiuto “Un gesto d’amore nei confronti della Storia”. Tre gesti d’amore: per “Elena” e “Troiane” di Euripide, per “Lisistrata” di Aristofane. Ai due drammaturghi, sospettati forse impropriamente di misoginia, Basilè risponde con tre icone di stupefacente celebrazione della femminilità. Il gesto d’amore è la donna, la Storia è la guerra. “Donne e guerra” è il tema della stagione classica dell’Inda e Basilè lo ha interpretato in maniera impeccabile raccontando l’enigma di Elena, lo smarrimento delle donne di Troia, l’ironia di Lisistrata.
Tre modi diversi di porsi di fronte alla guerra degli uomini: una per vanificarla, le altre per mostrarne l’ingiustizia, la terza per rovesciarla. E’ una nobile tradizione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa affidare ad artisti singolari e prestigiosi la realizzazione dei manifesti delle rappresentazioni classiche. I più numerosi portano la firma composta e geniale di Duilio Cambellotti che per i cicli delle tragedie ha disegnato la locandine che sono arte a sé stante e che pongono ai suoi successori la sfida: raccogliere nel tratto del disegno il senso dell’operazione teatrale. Di quello che Antonio Calbi, sovrintendente della Fondazione Inda, chiama “Olimpo degli artisti del ‘900 che hanno lavorato all’Inda” hanno fatto parte tra gli altri Renato Guttuso, Massimiliano Fuksas, Giuseppe Migneco, Arnaldo Pomodoro, Piero Guccione, Salvatore Fiume, Giuseppe Mazzullo. Matteo Basilè ha vinto la sfida e in quell’Olimpo ci sta benissimo. Le sue locandine sono fotografie che evocano statue, inquadrature cinematografiche, dipinti. “Queste fotografie sono come delle sculture. Sono figure tridimensionali con scale che contengono altre scale, altre storie. Se sapessi dipingere, probabilmente dipingerei.”: dice Matteo Basilè che abbiamo incontrato alla vigilia della mostra “Mater” che si terrà a Siracusa dall’8 maggio al 15 settembre presso il Museo Bellomo, fiore all’occhiello della città dove si trova “L’Annunciazione” di Antonello da Messina e dove con quella creatura celeste vivranno le donne di Basilè: guerriere, sante, folli, madri che contamineranno l’antico conservato in quelle sale in un percorso straniante e ricco di suggestioni.
Matteo Basilè è un figlio d’arte, è la quinta generazione di una dinastia di artisti, i Cascella, che costituiscono l’ultima bottega dell’arte italiana. Fondata da Basilio Cascella, da cui Matteo ha preso lo pseudonimo e la capacità di inventarsi l’arte, questa “famigliona” come la definisce Matteo Basilè, ha impresso all’arte italiana il connubio tra la continuità nello studio del colore e l’autonomia delle soluzioni immaginative che appartengono a ognuno dei suoi membri. Anche a quel Tommaso Cascella, salvato dalla prigionia tedesca da Gabriele D’Annunzio. E un po’ di visionarietà dannunziana ammette di averla lo stesso Matteo quando accende di sensualità i visi scomposti delle sue donne, ne scopre i seni, ne esalta le mani, ne intride di sensualità lo sguardo bambino. Sempre. Anche quando quello sguardo è impedito.
Come per l’invisibile Elena: “Simbolo assoluto di reale e surreale insieme, della mia arte. Elena è la mia interpretazione del mito. La mia Elena è nel cosmo, nella polvere laddove Euripide la metteva nella nuvola. Potrei dire che la nuvola di Euripide diventa la mia via Lattea. E magari non coinciderà con l’Elena che si vedrà al teatro. Chissà.”
La realtà dell’inesistenza, l’idea della femminilità come contemporanea minoranza soggetta alla violenza della guerra degli uomini, l’illuminazione dell’invisibile sono i suoi tratti artistici. L’incontro con il teatro greco quest’anno era un destino?
“Antonio Calbi mi chiamò tre anni fa per il Teatro Argentina. Allora cercò immagini che potessero raccontare quella stagione: un uomo drag queen alla reggia di Caserta che tiene un nano per i capelli. Ed era un’immagine iconica dell’attore che tiene il mostro in mano, e il mostro è il teatro. La parte mostruosa della vita che viene messa in scena e può essere tragedia o commedia. Da quest’incontro sono nate stima e amicizia. Calbi mi ha chiesto di lavorare con lui in una scelta di soggetti che potessero raccontare la tragedia greca, come a completare il nostro incontro con il teatro. Mi sento figlio del teatro classico e della psicoanalisi. Per i miei lavori cerco persone comuni. Non solo belle figure (come nel mondo pubblicitario con ragazze che possono sembrare modelle); sono anche affascinato dalla parte mostruosa, dalla meravigliosa mostruosità cioè dalla parte dell’inconscio dell’umanità che spaventa, che non vorresti mai vedere. A me piace catturare il freak, il mostro, e portarlo invece in un modo divino, illuminarlo. Diventa bellissimo. E’ sempre l’incontro tra la Bella e la Bestia. In questo caso io sono il luogo scenico dove quest’incontro avviene”.
Com’è nata l’immagine di Elena per questo festival? Cosa c’è in questo scatto, nei tre scatti?
“Sono tre scatti che vengono da tre storie completamente diverse. C’è questa donna con il volto coperto che viene da un lavoro che ha come titolo “Unseen” ossia il nascosto, l’invisibile perché gli artisti hanno il compito di rendere visibile l’invisibile. Un viaggio fatto di una serie di ritratti di personaggi, che nel loro piccolo, nella loro invisibilità spostano il mondo in un modo positivo. Elena, nella mia foto, è una bambina sposa każaca, molto bella ma naturalmente non poteva essere ritratta. Lei mi ha chiesto di fare questo ritratto per raccontare questa sua condizione di bambina sposa: ho fatto il ritratto prima con la famiglia, in una situazione assai simile a ciò che accadeva tempo fa nei ritratti di famiglia anche in Italia perché la sposa non si può lasciare sola in una stanza con un uomo. Poi c’è stata una piccola pausa in cui la zia, la madre e la famiglia sono usciti. Siamo rimasti insieme pochi secondi, lei ha abbassato un po’ la spallina e io le ho girato l’elmo, la corona e l’ho scattata. Ed è stato un lavoro, come tutte le opere che io realizzo, a quattro mani. Quando si instaura la piccola intimità con il soggetto, quello è il momento meraviglioso che c’è tra il soggetto e il fotografo. Scompare la parte teatrale e tutto diventa reale: Il costume, la messinscena, il trucco, il sangue finto, l’oggetto, tutto questo serve per spostare, per portare il soggetto in una comfort zone, in cui puoi raccontare te stesso in una forma di anonimato. Io ti trascino e tu incarni un altro te: questo è il momento magico, il fotofinish della vita. Fotografo questi momenti. Costruisco interi scenari per un piccolo ritratto. Quello che fanno i fotografi è questo: farsi ladri di certe situazioni e chi si fa fotografare regala sempre una propria parte di intimità e di fisicità. La difficoltà di mettersi davanti una macchina fotografica è tanta, quasi quanto quella di starvi dietro”.
E la scelta del colore, del rosso di Elena?
“I colori sono i miei, è la mia tavolozza. Partendo dal buio comincio a illuminare e naturalmente i primi colori che si accendono sono i colori primari: il rosso, il blu, il blu diventa verde, il verde grigio, gli azzurri si accendono. Sono i colori delle tavolozze della pittura che va dal Trecento fino a Caravaggio. Ma c’è anche l’eco della pittura fiamminga. La pittura con l’assenza del pulviscolo permette di fermare la luce. La luce ferma e catalizza tutto, persino la pelle. I miei ultimi lavori sono sfiorati da queste forme e da queste luci che sono lontane dalla cultura mediterranea e sono più nordiche”.
E il manifesto di “Troiane”?
“E’ stata una scelta fatta insieme ad Antonio Calbi. Talvolta, la mia visione può sembrare distorta, troppo viscerale rispetto a quello è la percezione del pubblico. A volte il pubblico sceglie immagini che tu non ritieni così comunicative: c’è stato un lavoro di mediazione, alla ricerca di qualcosa di nuovo ma che rispondesse alla tradizione incarnata dal teatro greco. Quindi, il tipo di taglio per “Troiane” è stato creato di proposito. Ma proviene da uno scatto di “Thisumanity”, un mio lavoro molto duro sulle minoranze, quando ho scelto la minoranza femminile da raccontare per prima. Ho immaginato la storia di queste minoranze che combattono tra di loro e questo combattimento tra donne per sconfiggere la parte maschile che è quella che fa le guerre”.
E’ una figura con un panneggio michelangiolesco e con un azzurro Islam
“Sì, ma è anche il colore del cielo. L’Islam mi affascina e lo scatto è stato fatto in Indonesia. Ho lavorato con gli abiti, il burqa, la ragazza każaca sono Islam. Poi era destinata a un teatro in Sicilia che è una culla europea dell’Islam”.
L’ultima è l’ironica Lisistrata?
“Lisistrata è una figura aliena con questo collo così lungo. Una figura che si copre e nell’opera reale ha questo sviluppo in altezza. Della ragazza ritratta mi colpirono gli occhi completamente fuori misura. Poi il collo lunghissimo, le grandi mani. L’opera, che sarà in mostra, completa il gioco di mani con un intarsio sulla pancia. Che è una mia caratteristica. L’intarsio è una consegna alla memoria ancestrale, una sorta di reliquiario contemporaneo che contiene le altre storie di noi stessi. Lisistrata fa sempre parte di “Unseen”. L’ho illuminata con una vecchia lampada come si faceva anticamente con la pittura. Lisistrata è fiamminga, è un bianco e nero colorato. La pittura fiamminga trasforma, le madonne fiamminghe sono quasi delle aliene, vengono da un altro mondo”.
Tutti e tre gli scatti hanno il gioco di assenza e presenza degli occhi, ma poi ci sono le mani in primo piano.
“Le mani insieme agli occhi sono lo specchio dell’anima. E’ la parte scultorea. E parlando di teatro la mano è fondamentale. E’ il gesto che buca la scena che porta il contatto con lo spettatore e definisce la costruzione dell’immagine. Una costruzione iconica perfetta”.

Le sue immagini nascono da una forma irrazionale. Poi c’è l’intervento del digitale. Lei è stato definito un artista digitale: si riconosce ancora in questa definizione?
“Le mie immagini nascono da una parte irrazionale, legata molto all’inconscio e poi con una dose di razionalità che le porta al mondo reale. Il concetto di arte digitale è forse già superato perché l’uso dello strumento digitale è talmente diffuso da diventare ovvio. Mi piace di più vedere la mia arte come una nuova pop art. Come artista nasco negli anni ’90 e sono stato tra i primi a usare la filosofia del digitale come strumento per realizzare immagini. Allora ho capito che lo strumento digitale, il computer, la macchina fotografica e la stampa erano il modo più veloce per arrivare al grande pubblico. Quindi la pop art: utilizzare uno strumento che viene utilizzato normalmente per usi pubblicitari. Infine, il digitale è stato per me quasi una forma di esorcismo: allontanare la possibilità che il mio lavoro venisse letto come un’eredità familiare. Ho studiato e lavorato a fianco di sviluppatori per poter utilizzare questo strumento nel modo più invisibile possibile. Quando si è abili nell’uso dello strumento digitale, questo a un certo punto scompare: nasce il fascino di realizzare immagini dove reale e surreale sono perfettamente paralleli. Mi interessa raccontare storie che costruisco come dei set cinematografici e sono le storie che ci raccontavano da bambini oppure quelle dei sogni. Mi reputo un grande sognatore: tutti i miei lavori nascono dai sogni che io faccio, dei momenti di solitudine con quello che è il mio immaginario”.
La mostra Mater?
“Mater è una scelta di alcune figure, non solo quelle utilizzate per la campagna Inda. E’ la selezione di quindici figure omaggio alla donna madre, procreatrice di umanità, di amore, di uomini e donne che guardano la diversità come priorità nella propria educazione e cultura. E’ una piccola mostra che contamina questo museo in punta di piedi. Io espongo in spazi enormi: qui ci sono sale piccole per le quali ho realizzato delle piccole opere che entrano nelle nicchie. Mi vado a infilare tra le opere e metto in dialogo i miei lavori con quanto è esposto. Per esempio, il ritratto delle mie due Elene è inserito in una parete in mezzo alle statue di un papa e di un santo. Oppure la donna che porta il giglio, che chiude il mio percorso libero, dialoga con una statua di angelo in una voluta suggestione leonardesca”.
La presenza a Siracusa che valore ha per un artista di respiro così internazionale?
“Per me ha un valore importante perché ho messo un piede in Sicilia dove non ho mai esposto. Mi piacerebbe prossimamente sviluppare in Sicilia un lavoro. Le mie storie sono un’unica storia, che non finisce mai, come “Il trono di spade”. Cambio soggetti, luoghi ma non chiudo mai un capitolo: sono tutti capitoli che fanno parte di una grande storia, che non so quando finirà. Mi piacerebbe realizzare un progetto con l’archivio degli abiti che sono stati utilizzati nella storia della Fondazione Inda. Sarebbe bellissimo ritirare fuori abiti e dargli una nuova vita e fermarli nella terra siciliana; farli indossare non solamente dagli attori ma da quelli che sono i soggetti più vicini a me. Trovare da Siracusa a Palermo ai borghi i perfetti discendenti dei greci, degli arabi. Un racconto su più strati su come potrebbe essere quest’altra messinscena della realtà”.