Chi pensa che il reazionario sia per definizione un individuo triste e ottuso, legga Nicolás Gómez Dávila per ricredersi. La prima volta che lo sentì citare, nell’anno della sua morte, fu da un autore più vecchio di lui, Ernst Jünger. La rivista Cristianità con Giovanni Cantoni ne aveva tradotto alcuni aforismi col titolo Il vero reazionario. Poi, nel 2000, in un convegno su Nietzsche a Palermo, me ne parlò Franco Volpi che lo stava traducendo. Vedrai, è nelle tue corde, mi disse, è il Nietzsche colombiano, è più salubre di Cioran e meno nichilista. Pochi mesi dopo, nel 2001, uscì da Adelphi a sua cura In margine di un testo implicito e me ne innamorai nel corpo e nello spirito, ovvero nella forma – aforismi fulminanti – e nei contenuti, divina intelligenza antimoderna.
L’ultima volta che parlai di lui con Volpi fu in volo dal Sudamerica, nel 2008, tornavamo da un convegno a Guadalajara. Era uscito da poco l’altro volume da lui curato, Tra poche parole, sempre da Adelphi e sempre scintillante. Intanto Anna k. Valerio aveva tradotto e pubblicato col titolo Pensieri antimoderni un’altra straordinaria silloge di Gómez Dávila. La pubblicò le edizioni di Ar con una sfrontata dichiarazione di esproprio aristocratico anziché proletario: i diritti non erano stati acquisiti, abbiamo «predato le pietre dure che formano questa raccolta». Ma questo Lapidario magico e terapeutico, aggiungeva l’Editore (Franco G. Freda), raccoglie «pietre tanto preziose da non sopportarne il prezzo». Abuso sublime, al cui confronto sfigura come perbenismo borghese lo snobismo raffinato di Roberto Calasso e delle edizioni Adelphi, incensato dai mass media. Il riferimento lapidario non è arbitrario, lo stesso Gómez Dávila dice che l’aforisma deve avere «la durezza della pietra e il tremolio delle foglie». Quest’anno, il 18 maggio, Gómez Dàvila avrebbe compiuto cento anni (il 18 maggio è anche il decennale della morte di un suo affine, Alfredo Cattabiani). Ma per «un angelo prigioniero nel tempo», come diceva lui, il tempo è solo un molesto inconveniente. Gómez Dávila non è politicamente scorretto, ma di più, metafisicamente scorretto, con eleganza. Stronca la democrazia: «le aristocrazie sono i parti naturali della storia; le democrazie, gli aborti»; affonda la sinistra: «con le idee di destra facciamo poesia, con quelle di sinistra, retorica»; demolisce l’accademia: «cultura è tutto ciò che non può insegnare l’università». È duro con i filosofi di professione: «Molti filosofi credono di pensare perché non sanno scrivere»; e con i giornalisti: «il giornalista sceglie i propri argomenti, lo scrittore ne è scelto», anche se spesso vale il contrario, il giornalista segue la cronaca, lo scrittore la precede. Poi ironizza sui riformatori della Chiesa: «Gli stupidi un tempo attaccavano la Chiesa, ora la riformano»; sui giustizialisti «terrore ed etica sono fratelli» e i filantropi: «il culto dell’umanità si celebra con sacrifici umani». Poi da luminoso oscurantista si fa beffe della scienza, «il ponte tra la natura e l’uomo non è la scienza ma il mito».
Non manca un riconoscimento cavalleresco: «il comunista, prima che vada al potere, merita il massimo rispetto». Ma poi avverte che l’amore per il popolo è vocazione aristocratica; il democratico lo ama solo in periodo elettorale. Per Gómez Dávila, la libertà non è un fine ma un mezzo. Solitario e pessimista, anzi tragico con brio con un barlume soprannaturale negato a Cioran che si crogiola nella catastrofe con voluttà d’apocalissi e narcisismo suicida (mai compiuto). I due, quasi coetanei, morirono a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Gómez Dávila visse in gioventù per sette anni a Parigi, ma a differenza di Cioran che ci andò in età matura, non fece il bohémienne o il déraciné, ma studiò dai benedettini; e questo fece la differenza tra i due. Ma poi a 23 anni tornò in Colombia e vi restò fino alla sua morte, oltre gli 80 anni. Ebbe tre figli. Gli ultimi anni visse da certosino in alta montagna nei pressi di Bogotà, allontanandosi solo per andare dai francescani alla «Porciuncola». Rinunciò alla carriera di ambasciatore, destinato a Londra, e pur vicino ai conservatori non volle mai scendere in politica. La sua opera principale, cinque tomi di appunti e aforismi, Escolios a un texto implicito, è una “miniera straordinaria” da cui Volpi pensava di attingere ancora, ripetendo la fortunata operazione-spezzatino di Schopenhauer. Ma nel 2009 Volpi morì in un incidente assurdo, in bicicletta.
Gómez Dávila si definiva un pagano che credeva in Cristo, ma poi confessava che il cattolicesimo è la sua patria. Fu scrittore perché scrivere era per lui «l’unico modo di tenere le distanze dal secolo in cui ci è toccato di nascere». E in cui gli toccò di morire laddove nacque, a Bogotà, nel 1994. Lo scrittore, avvertiva, è sempre un forestiero nella società. I suoi libri non ebbero un gran successo e non solo perché apparteneva a una cultura «periferica», eccetto che per la narrativa. Il successo di un autore, spiegava, nulla dimostra di un libro, né in suo favore né contro; ma se abbiamo sentore della sua mediocrità, aggiungeva, il successo «conferma automaticamente i nostri sospetti». Peraltro «la celebrità trasforma lo scrittore in cocotte».
Gomez Davila dedicò la vita a leggere e scrivere, la sua stessa casa rifletteva la sua vita perché al suo centro vi era la biblioteca di 40mila volumi. Quando morì stava studiando il danese per leggere Soren Kierkegaard, nato giusto cent’anni prima di lui. Scelse come forma si scrittura l’aforisma «per concludere prima di annoiare», considerando che la letteratura sta morendo non di anoressia ma di bulimia, giacché tutti scrivono, e troppo. Nel suo sguardo disincantato «I Vangeli e il Manifesto del partito comunista scoloriscono, il futuro del mondo appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia». Non ebbe la possibilità di conoscere il web. È vano il tentativo di analizzare criticamente il pensiero di Gómez Dávila: dopo la sua lettura, dice Anna Valerio, occorre tapparsi le orecchie o venerare. Per lui essere reazionario vuol dire che l’uomo è un problema senza soluzione umana. Il pensiero reazionario, ammetteva Gómez Dávila «è impotente e lucido», non cambia il mondo ma lo comprende fin dentro l’anima. Ma quando poi scrive che «il reazionario non è il sognatore nostalgico di passati conclusi, ma il cacciatore di ombre sacre sulle colline eterne», ti vien voglia di seguirlo nel suo sendero luminoso…
* da Il Giornale