L’Italia partorì nel 1909 un’avanguardia artistica unica ed irripetibile, poi riconosciuta in tutto il mondo per il fondamentale ruolo innovativo multidisciplinare, ma per troppo tempo non emancipatasi in Patria oltre uno schema manicheo e avvilente: fumetto innocuo per sanguisughe postmoderne (pubblicitari e designer a corto d’idee), dettaglio retrò nella baloccante enclave MART a Rovereto, nostalgica ospitalità nel vintage, come se tra ‘800 e primi del ‘900 non fosse poi cambiato granché. Si pensa al Futurismo e di colpo appaiono le sintesi colorate, il font geometrico delle vecchie pubblicità, i ritratti dei fondatori con bombetta e baffo ad uso hipster, i tributi postumi di Schifano, Lodola e Nespolo per i più dotti, al limite pure la contemporanea diffidenza salutista nei confronti della pastasciutta.
Oppure uno strato di polvere, remota atmosfera da mercatino dell’antiquariato – facendo certamente rigirare le palle d’acciaio di Marinetti nella tomba – che contribuisce a disinnescare quel potenziale creativo, consegnandolo all’oblio dei rigattieri. Fatto salvo l’eccellente lavoro svolto da Maurizio Calvesi, Elena Pontiggia ed Enrico Crispolti, nel dopoguerra i rari tributi da parte della Critica vennero conferiti ai futuristi divenuti altro – Carrà, Campigli, Morandi – oppure vittime in trincea: Carlo Erba, Antonio Sant’Elia e, soprattutto, Umberto Boccioni. A quest’ultimo, morto prima dell’avvento del Fascismo, toccò l’onore del salvacondotto. Sperticate lodi all’autore de La città che sale e sterco sul cosiddetto “Secondo Futurismo”, rileggendo certi vecchi manuali d’arte, sono giustificabili per l’appunto solo dal discrimine ideologico. Orbene, si saranno detti: togliamo dal mazzo Boccioni, in quanto gravato dal solo fardello d’essere stato interventista, e risolviamo così il Futurismo, relegando tutto il resto in propaganda. Così, pedissequamente addietro, i mercanti, intenti ad alimentare speculazioni tra primo e secondo periodo, col tipico cattivo gusto dei faccendieri.
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Tralasciando volutamente Giacomo Balla, opportunamente rivalutato anche grazie alla Fondazione Biagiotti Cigna sul versante moda, Enrico Prampolini – grande sperimentatore, ad avviso dello scrivente il più eccelso del gruppo – e l’ultrapop Fortunato Depero (già beneficiario di analisi), tenteremo di partire dalla fine, ovvero dall’ultimo futurista: l’aeropittore Tullio Crali.
Originario di Zara, nato nel 1910 in Montenegro, quindi stabilitosi a Gorizia nel ’22, Crali aderì al Futurismo giovanissimo, dopo aver testato per la prima volta l’ebbrezza del volo. Il “bocia” zaratino, entusiasta autodidatta, chiese di Marinetti e quest’ultimo, senza inutili preamboli, lo battezzò futurista seduta stante. Inizialmente le opere dell’allora sedicenne pittore, pagavano tributo ai maestri Balla e Prampolini. Autocorsa, del 1926, è il primo quadro futurista realizzato, messo in piedi alla bell’è meglio grazie a colori fatti in casa, mostra oltre alla devozione per Luigi Russolo, tutta l’ingenuità degli esordi. Il ragazzo, nonostante i poveri mezzi, non demorde. Se per i coetanei l’immaginario col quale fantasticare è ancora quello esotico ed ottocentesco di Salgari, per lui esiste solo il Futurismo, modernissimo e volante, chimera lontana se rapportata all’arretratezza del profondo nordest. Perseveranza, aiutata dalla vocazione al proselitismo di Marinetti, che diede frutto. La candida urgenza adolescenziale, mista alla proverbiale caparbietà dalmata, portò Tullio Crali a diventare in breve tempo un protagonista assoluto della seconda ondata. C’erano i veterani Dottori, Balla, Prampolini, Depero, assieme ai giovani Oriani, Peruzzi, Tato, Thayaht, Delle Site, Pannaggi, Di Bosso, Azari. Gli anni ’30, quelli detti del consenso, spalancarono ufficiosamente al Futurismo gli onori dell’Arte di Stato, assieme al gruppo del Novecento coordinato da Margherita Sarfatti. Il mecenatismo di stato promosse senza sosta interventi di radicale modernizzazione, arti plastiche e architettura si armonizzarono, divenendo nuovo linguaggio estetico, da Bolzano ad Asmara.
Crali ci crede, è prolifico e versatile, si occupa oltre che di pittura, pure di moda, architettura, scultura; grazie al temperamento volitivo declama pubblicamente le sferraglianti invettive antipassatiste di Marinetti. Espone in prestigiosi contesti, a Roma, Milano, Genova, Trieste, Venezia, Firenze, Berlino, Parigi, promuovendo senza sosta l’ardito bellicismo dei cieli, messo in pittura con piglio sempre più realistico. La sua visione aeropittorica si assesta su un recupero della figurazione, pur sovente geometrizzata in prospettive vertiginose, in sensoriali astrattismi funzionali a restituire la visione adrenalinica di ascese e cadute vorticose. Memorabili, a tal proposito le opere In tuffo sull’aeroporto, Prima che si apra il paracadute, Le forze della curva, Looping e soprattutto Incuneandosi nell’abitato, del ’39, laddove direttamente dalla cabina del pilota, ritratto di spalle, si apre una essenziale panoramica verticale sulla città nuova, razionalmente tratteggiata in volumi squadrati. L’audace vitalismo futurista, nella versione meccanicizzata degli aeropittori, si frantuma però dinnanzi ad un ostacolo concreto, con esiti disastrosi. Il Secondo Conflitto Mondiale, se analizzato dal punto di vista estetico, rappresenta l’epilogo per la longeva creatura di Marinetti. Il sentore diffuso della sconfitta rende sconveniente immaginare un futuro, sicché vengono privilegiati stilemi risorgimentali e paradossalmente filotedeschi, come quelli promossi da Farinacci al reazionario Premio Cremona. Si badi al dettaglio: molto più attigua alla tragica cupezza di Sironi, a quell’opaco deambulare periferico, la Repubblica Sociale Italiana trova il proprio codice espressivo nel realismo epico di Gino Boccasile, nelle gesta di un crepuscolare eroismo premoderno. Il Futurismo è un giocattolo rotto, in uno scatafascio di mille altre cose rotte, abbandonate, inservibili e peraltro, di lì a poco, da rimuovere con solerzia.
Tullio Crali, a differenza di altri sodali col guardaroba rinnovato alla bisogna, proseguirà anche nel dopoguerra l’attività artistica e divulgativa, restando fedele al Futurismo. Organizzatore instancabile, si batterà tenacemente per ribadire la primogenitura avanguardista, cercando di risvegliare dal torpore i vecchi amici. Osservando le foto degli anni ’50, ritraenti cenacoli un po’ malinconici di reduci, il confronto con gli anni precedenti si fa spietato. Un mondo è finito per sempre, altri movimenti saliranno agli onori pubblici, a tutto vantaggio dei camaleonti e di altre generazioni d’artisti. Verranno porte chiuse, come quelle della Biennale di Venezia, insensibile alla Sassintesi (ricerca plastica del 1959, conseguente alla ricerca polimaterica), ma anche viaggi all’estero, nuove fascinazioni – come quella giapponese, testimoniata dai dipinti ispirati alla figura del Kamikaze – fino allo straordinario omaggio del 1987 alle Frecce Tricolori, futuristissimo, come se dagli anni ’30 nulla fosse mutato. Mentre la mostra “The Italian Futurism 1909-1944″ inaugurata il 21 febbraio 2014 al Guggenheim Museum di New York, ribadiva l’importanza dell’avanguardia tricolore nel mondo, in Italia andava in scena l’ennesimo teatrino provinciale. Fatti che ci portano alla cronaca recente e al contenzioso tra gli eredi di Crali e la direzione del MART di Rovereto. Il prestigioso ente museale, beneficiario di una donazione espressamente voluta dal Maestro poco prima della morte (nel 2000), pare non fosse intenzionato a rispettare le clausole – che prevedevano un’esposizione permanente – privilegiando di fatto effimere e cervellotiche mostre contemporanee. Riconosciuta l’inadempienza, il Tribunale ha stabilito il ritorno delle 42 opere, tra le quali il celebre dipinto Incuneandosi nell’abitato, agli eredi. Eccoci qui, dunque, a contemplare dopo più di cent’anni l’immutata capacità, tutta futurista, d’épater le bourgeois: la donazione di Crali, da Rovereto muove verso Macerata. Mai stare fermi, tutt’al più volare via, qualsiasi cosa fuorché ammuffire negli scantinati di un museo.