C’è questo autoritratto giovanile di Mario Sironi – pittore, illustratore, scultore, scenografo tra i più grandi del ‘900 – che racconta di un preludio collettivo, una storia comune a molti protagonisti di quella generazione ardimentosa e spregiudicata, battezzata col fuoco della Grande Guerra e gravitante poi nella fagocitante orbita del successivo regime fascista. Probabilmente eseguito a carboncino e pastello, il quadro – del 1904 – denota oltre alla tecnica “fotografica” allora in voga, la posa spavalda e lo sguardo distaccato, nonché tutta quella peculiare vocazione all’eleganza, al contempo decadente e novatrice, del dandy sprezzante alla ricerca di un ideale per il quale vivere (o morire). C’è dunque, tratteggiato sullo sfondo di quest’opera minore, pure un bagaglio filosofico convulso comprendente Nietzsche, Schopenhauer, Leopardi, distillati in uno iato ancora oscuro e romantico, talvolta stemperato – visti tempi di trasformazione – in esotiche suggestioni o in sincretismi spirituali. Il primo ‘900 è infatti terreno di grande sperimentazione, diviso com’è tra industrializzazione e ruralità, progresso e restaurazione, cosmopolitismo e patriottismo.
Dal punto di vista strettamente artistico i mutamenti, rispetto a quanto espresso in precedenza, non tardano a manifestarsi. A Parigi, Zurigo, Weimar e ovunque in Europa si mescolano diverse suggestioni, tensioni estetiche contraddittorie, intrise di radicali contrapposizioni anche politiche. Nasce l’avanguardia e il tempo delle macchine trova il suo stile: Cubismo, Dadaismo, Futurismo, Surrealismo, Costruttivismo, Metafisica si contenderanno l’eredità dell’impressionismo tra neoprimitivismo, spinte in avanti e melanconiche nostalgie.
Il giovane Sironi si muove in quel fermento: entrato in contatto con Boccioni, Balla e Severini, si avvicina prima al Divisionismo e quindi al Futurismo. La Grande Guerra rappresenta, soprattutto per i nuovi artisti, un palcoscenico esistenziale in grado di conferire tangibilità ai proclami vitalistici e alle pulsioni nazionalistiche. Questo contribuisce a delineare, sia dal punto di vista interventista che da quello neutralista, il profilo fino ad allora inedito dell’artista militante, stereotipo giunto fino ai giorni nostri con la misera parodia dell’intellettuale “impegnato” (sia concesso: spesso a fare cassa sfruttando un allineamento ideologico di convenienza). Tant’è che, nonostante la belligerante comunione d’intenti che lega Sironi a Marinetti, lo stile ed il processo creativo divergono quasi da subito. Nella pittura sironiana, anche in quella più legata ai codici moderni dell’avanguardia, s’insinuano sotto traccia forti elementi personali, suggestioni tragiche, incongruenti rispetto ai postulati ottimistici del “mondo nuovo” del quale già si scorgono le impalcature.
Certo, al principio vi fu Giorgio de Chirico che con la Metafisica ribaltò la funzione descrittiva della pittura, preconizzando con opere quali Piazza d’Italia l’architettura razionalista delle città di fondazione e in generale l’impostazione urbana fascista; un sobrio classicismo fatto di archi e severe volumetrie, così come di vuoti e silenzi materializzati, dai quali Sironi trasse certamente ispirazione. Distaccatosi dal Futurismo, null’altro che una parentesi contingente, egli fonda insieme ad altri il Novecento Italiano, movimento animato da Margherita Sarfatti destinato nei presupposti a consegnare alla Patria una nuova legislazione estetica. Mario Sironi, grazie anche all’amicizia personale con Mussolini e alla convinta fede fascista, diventa paradossalmente, nell’immaginario collettivo, l’artista di regime. Il paradosso, nonostante le innumerevoli commissioni di stato a lui assegnate, risiede nella vocazione tormentata del suo tratto peculiare, così distante dalla celebrazione ottusa del potere.
Anche nelle illustrazioni per la stampa più propagandistiche emerge questa cifra stilistica, questo segno caliginoso, spogliato ed inquieto, che troverà compimento esemplare negli affreschi monumentali, nei mosaici classicheggianti e nell’attività pittorica legata alle periferie urbane. Qui Sironi tende ad esprimere senza dubbio la titanica ambizione totalitaria, l’apologia pubblica, “romana”, del potere e della giustizia statuali, ma con una tale muta “fissità” da renderne atemporale il risultato finale. L’essere umano mitizzato, smascherato dalla sua condizione borghese soggettiva – così come il paesaggio urbano di pece, quasi fosse tornito, battuto al martello, fuso in fornace per essere rimodulato – diviene nell’arte di Mario Sironi archetipo impersonale, tensione interiore, destino pietrificato e fatale presupposto di caduta. Un fragile monolito scultoreo da abbattere, intimamente consapevole della propria inadeguatezza nell’impianto scenografico in cartongesso, così retorico, dell’Italia fascista. Così accadrà, infatti. La caduta del regime mussoliniano alimenterà censure e deturpazioni, il martello del popolo liberato si abbatterà con violenza su tutto l’immaginario sironiano, facendone a pezzi la simbologia ed abiurandone il genio. Resteranno le rovine moderne di un’utopia, in fondo così preveggenti riguardo alla sorte che ne provocherà il tramonto. L’arte di Mario Sironi contiene infatti, anche nell’esaltazione della vittoria, proprio questo speculare opposto, ovvero il postulato fatale della sconfitta. C’è chi sostiene che l’arte non abbia tempo e chi, al contrario, afferma sia frutto di un tempo determinato. Quella di Sironi ha cercato di creare il tempo e, nel fallimento, ha trovato Kairos.