Li hanno chiamati “i quattro di Visegrad”. Sono i primi ministri di Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca. Si sono incontrati il 4 settembre, creando un inedito asse nell’ambito delle politiche comunitarie. Minimo comun denominatore: l’opposizione inflessibile alla politica delle quote obbligatorie di immigrati.
Da venerdì scorso, dunque, Viktor Orban non è più così solo nella sua strenua opposizione alle politiche immigrazioniste sempre più accesamente perseguite dalle élites politico-finanziarie occidentali.
Si tratta di una boccata di ossigeno per il premier liberal-conservatore ungherese, assediato, per il suo pugno di ferro nel contrastare la caduta delle frontiere nazionali, non solo dai colleghi e dalle burocrazie di Bruxelles, ma anche dalla stampa di tutto il mondo, riversatasi sul confine a raccontare la vicenda in maniera che a molti è parsa deliberatamente denigratoria dell’operato del governo. A Budapest si inizia ormai a parlare a mezza voce del sospetto che, dietro alla crisi generata da una robusta iniezioni di nuovi arrivi, ci sia una strategia volta ad operare un regime-change ai danni di un leader che, dal rifiuto opposto all’ingresso nell’euro al contrasto alle politiche abortiste ed omosessualiste fino all’opposizione alle aperture sull’immigrazione, ha mostrato una sempre più decisa volontà di opporsi ai cardini stessi dell’ideologia dell’ Unione europea.
Ora, però, scopre di non essere solo, e di avere dalla sua, praticamente, tutti i principali attori dell’ex Patto di Varsavia. Non c’è da stupirsi: si tratta di Nazioni che, nella strenua battaglia per la libertà dal giogo sovietico, hanno issato a vessillo la propria fortissima identità nazionale. Proprio per il timore della Russia sempre incombente, nel corso degli anni duemila, questi paesi hanno aderito alla Nato ed alla Ue, nella convinzione che l’appartenenza a grandi organizzazioni sovranazionali fosse l’unico modo per garantirsi dalle possibili mire del nemico storico, salvo poi cominciare a sospettare di essere finiti dalla padella nella brace, sottomessi ad un’entità non meno implacabile dell’Urss nella volontà di annientamento delle culture, delle identità, dei confini. Da qui l’ascesa, negli ultimi anni, di governi che, secondo i canoni di solo dieci anni fa, si potrebbero definire di centro-destra o, tutt’al più, conservatori, ma che, nel linguaggio utilizzato con uniformità granitica dai media odierni, diventano immancabilmente “nazionalisti”, “xenofobi”, forse addirittura “fascisti”. Non sarà superfluo sottolineare che si tratta di compagini governative che a volte, come nel caso proprio di Orban, godono di risultati elettorali plebiscitari.
Tutto il contrario accade in Europa occidentale, dove il popolo è ormai scollato dalla classe politica. Nel Regno Unito, i sondaggi sulle tendenze di voto dei sudditi di Sua Maestà in vista del futuro referendum sulla permanenza dell’Unione danno ormai in vantaggio i NO, e nessuno si nasconde che la causa principale dell’allargarsi del fronte dei contrari sia la sempre maggiore ostilità alle politiche aperturiste sugli ingressi di stranieri che la stessa Unione impone.
In Francia, nel mentre, il settimanale Le Figaro registra un notevole scarto tra la grande attenzione mediatica attorno alla foto di Aylau, il bambino siriano morto sulla spiaggia turca, e l’effettivo sentire della maggior parte dei francesi, il cui atteggiamento sembra piuttosto scettico e non sembra mosso a pietà. Tutto ciò inizia a preoccupare la stampa per la sua diffusione. Tanto che Le Figaro domanda con apprensione se questo rifiuto dei francesi a commuoversi a comando non sia il segnale di “una frattura fra élites e popolo”, segnalando come ormai l’atteggiamento di diffidenza non riguardi più solo i politici ma anche i grandi imprenditori, i giornalisti e gli intellettuali.
Il problema è tanto più drammatico quanto più non si limita alla Francia, ma investe tutti i paesi dell’UE, tranne, forse, proprio “i quattro di Visegard”.